Alla fine della guerra, Francesco Dominici (Raf Vallone) torna a casa in Ciociaria per riprendere in mano le redini della sua famiglia e tornare a fare il pastore. Ma durante la sua assenza, un altro pastore, Agostino Benfoglio (Folco Lulli) gli ha sottratto quasi tutte le sue pecore arrivando a possederne quasi duecento. Quando Francesco escogita il modo per riprendersi quel che è suo per legge, viene catturato e condannato a quattro anni di carcere, tradito dai suoi stessi compaesani e dall’amata Lucia (Lucia Bosè), unica testimone del furto da parte di Agostino, che si rifiuteranno di deporre in suo favore. Francesco, convinto che le istituzioni gli daranno ragione, evade di prigione e inseguito dai carabinieri viene salvato da Lucia che ora è decisa a prendere le sue parti e a dichiarargli il suo amore. Agostino invece medita vendetta, cercando di uccidere Francesco tra le campagne ciociare.
Non c’è pace tra gli Ulivi di Giuseppe De Santis, riproposto in versione restaurata alla 74. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia nella sezione Venezia Classici, presenta fin dalla prima battuta un elemento che si impone sul film stesso, prendendone le redini e decidendone gli avvenimenti futuri: è la fortissima presenza autoreferenziale del regista, esplicitamente presente come voce narrante del film che può definirsi quindi una introiezione dello stesso. Con questo espediente, il regista/autore si prende totalmente la responsabilità degli avvenimenti del film e dei messaggi che questo vuole portare all’attenzione degli spettatori. La denuncia sociale nei confronti dell’omertà popolare è dunque una presa di posizione ben precisa del regista e non c’è altro tema da veicolare se non il fatto che la solidarietà tra gli uomini e la coscienza di classe, rappresentano l’unica soluzione per giungere ad una esistenza felice e giusta.
In questa favola contadina troneggia infatti una regia che vuole essere autoreferenziale, antinaturalistica e che dichiara la presenza della macchina da presa, fatta di costanti come i piani sequenza, la gru, il carrello e un preciso tipo di recitazione astratta che rimanda al linguaggio letterario. De Santis si impone come un burattinaio sulla scena, anche e soprattutto quando muove gli attori su un set che ricorda più un palcoscenico teatrale, a dispetto dei pregiudizi che si hanno nei confronti della messa in scena neorealista, dove, secondo una conoscenza superficiale di tale movimento cinematografico, non dovrebbe esistere alcuna teatralità in un cinema vòlto invece al racconto fedele della realtà quotidiana. Così ai simbolismi e ai rimandi al genere western presenti nel film, come il duello, la vendetta, il ruolo delle figure femminili, si aggiungono quelli relativi alla religione cristiana: l’agnello sacrificale è presente in tutta la durata del film, quando Francesco ne porta uno sulle spalle, quando Benfiglio ne fa a pezzi un altro, e soprattutto quando Maria Grazia, sorella di Lucia, viene prima stuprata e poi uccisa, finendo per rappresentare proprio la vittima sacrificale dell’intero film.
Sceneggiatura e regia si vestono di un’aura fortemente teatrale, laddove De Santis studia a tavolino ogni elemento, dal plot, alle inquadrature, alla direzione degli attori fino al montaggio formale. Questo non esenta De Santis a cadere a volte in contraddizione: l’uso del dialetto ciociaro teso alla verosimiglianza viene spesso smorzato da un italiano letterario e irrealmente solenne, così come la denuncia sociale viene spesso messa in secondo piano dalla vena melodrammatica che percorre l’intera vicenda di Francesco e Lucia.
Reduce dal successo di Riso Amaro, sembra che De Santis abbia ceduto al racconto didascalico, quando invece, con il suo enorme lavoro di studio letterario e di regia, ha aiutato a ridefinire i termini del Neorealismo che non si limita quindi alle regole semplicistiche degli attori non professionisti e della macchina a mano, e producendo uno dei film più validi del dopoguerra italiano.