Nonostante Zama sia stato pubblicato sul mercato editoriale sudamericano nel 1956, è stato solo dalla sua edizione inglese del 2016 che il romanzo di Antonio di Benedetto è stato considerato dalla critica internazionale come uno dei più importanti capolavori della letteratura argentina. Ora il libro di di Benedetto riceve una trasposizione cinematografica a opera della pluripremiata Lucrecia Martel, cineasta che dopo esser passata da Cannes, da Berlino e dal Sundance arriva finalmente anche alla 74. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, colpevolmente relegata alla sezione fuori concorso.
DON DIEGO DE ZAMA E L’ATTESA INFINITA
Zama racconta uno spaccato di vita di Don Diego de Zama (un memorabile Daniel Giménez Cacho), ufficiale sud-americano della Corona Spagnola che nel XVIII secolo si ritrova bloccato in un Paraguay che detesta, dove è stato trasferito contro la propria volontà per amministrare il territorio e provare a fermare le spietate scorribande del temuto criminale Vicuña Porto (Matheus Nachtergaele).
Separato dalla famiglia e ‘imprigionato’ in un contesto esotico (tanto incantevole quanto ostile), le giornate di Don Diego de Zama si alternano lente e vuote, in attesa di un trasferimento disperatamente ricercato ma che non arriverà mai. Deumanizzato e trasformato in un ingranaggio del sistema (un ingranaggio che gira a vuoto), dopo anni di permanenza Don Diego de Zama realizza di essere un uomo solo, che non ha nulla da perdere e che non riceverà mai la promozione con cui è stato lungamente illuso dai superiori che si alternavano. Decide così che ogni occasione è buona per fuggire da quel limbo, anche una pericolosissima missione in terre funestate dagli indios.
UNA STRAORDINARIA OPERA SULL’IMPOTENZA E LA RASSEGNAZIONE
Zama è un film particolarmente difficile da inquadrare. La sceneggiatura è ridotta all’osso e il senso di stasi, frustrazione e attesa che lo percorre per la maggior parte del metraggio rappresenta una vera sfida per lo spettatore che aspetta vanamente una dinamica narrativa degna di questo nome. Ma la vana speranza, la fiducia mal riposta verso un cambiamento che non arriva mai, sono la quintessenza di Zama, e se inizialmente può sembrare che un pesantissimo tedio sia quanto al massimo la pellicola può regalare, una giusta decantazione del film aiuta a comprendere la grandezza dell’opera della Martel, che si rivela come un straordinaria parabola di rassegnazione.
Il vero protagonista del mondo narrativo costruito dalla regista non è Don Diego, miserabile uomo di potere che non ha alcun potere sulla propria vita, quanto il contesto in cui la vicenda del protagonista si consuma, quel contesto che lo intrappola come delle placide sabbie mobili.
UN UNIVERSO NARRATIVO CHE LASCIA IL SEGNO
Quello di Zama è un Paraguay surreale, immaginario, ma frutto di una visione così chiara e specifica da risultare assolutamente indimenticabile. I colori pastello di costumi e scene, magnificamente composti in palette sublimi, basterebbero da soli a rendere Zama un’esperienza cinematografica indimenticabile; ma il delirio di onnipotenza di una Lucrecia Martel patologicamente perfezionista (come ben racconta il making of firmato da Manuel Abramovich, Años Luz, presentato anch’esso a Venezia 74) ci consegna una realtà parallela e sottilmente allucinata. Parrucche settecentesche mal calzate su capigliature corvine e scarmigliate, schiavi africani per metà abbigliati con vestiti dabbene e per metà nudi, lama che si aggirano all’interno delle stanze del potere riccamente arredate, una classe dirigente borghese che è più smarrita dei sudditi indigenti. Un continuo equilibrio di contrasti: il potere impotente, la colonizzazione in balia della colonia, le tradizioni europee e la cultura tribale; un equilibrio sempre vicino al crollo ma anche misurato e sempre lontano dagli eccessi, sussurrato, lasciato intendere.
L’attenzione al dettaglio di Lucrecia Martel sconfina nella follia, ma la sua pretesa di decidere i singoli battiti di ciglia (letteralmente) degli straordinari interpreti a sua disposizione o di comporre la scena decidendo anche che tipo di camminata debba avere un animale da fattoria sullo sfondo fa sì che il risultato sia di un’intensità e di un pittoricismo inarrivabile.
E poi c’è il geniale commento sonoro. La Martel, collaborando con Guido Berenblum, costruisce una colonna sonora meravigliosa e straniante, in cui le sognanti chitarre della musica caraibica descrivono con ironia quel paradiso non richiesto, alternandosi più volte a un’unica perturbante nota di synth con bending discendente, che accompagnata da un progressivo ovattamento dei suoni ambientali restituisce con disarmante efficacia lo smarrimento del protagonista.
Zama è un film il cui potenziale si intuisce immediatamente, ma che sa regalarsi allo spettatore solo nel momento in cui se ne colga la giusta chiave di lettura. Il protagonista Daniel Giménez Cacho è assolutamente superlativo ma anche Lola Dueñas e Matheus Nachtergaele sono semplicemente perfetti. I costumi di Julio Suárez, la fotografia di Rui Poças, le musiche di Guido Berenblum e le scenografie di Javier Leoz sarebbero tutti da Oscar, e la presenza demiurgica di Lucrecia Martel trova in Zama il suo capolavoro. La noia è un piccolo prezzo da pagare, davanti a un film così grande.