Marco Pettenello è sceneggiatore (insieme al regista Andrea Segre) de L’Ordine delle Cose, pellicola presentata nella sezione Proiezioni Speciali della 74. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Giovanna Koch lo ha intervistato per noi.
Ciao, Marco, ti chiediamo prima di tutto una sintesi breve, a mo’ di pitch, della storia di L’Ordine delle Cose.
Il film racconta la storia di un poliziotto italiano di alto rango, una persona seria anche se magari un po’ schematica, che viene mandato in missione in Libia. Deve organizzare la collaborazione tra Europa e autorità libiche per fermare i migranti prima che arrivino in Italia. Mentre è lì a tessere la sua tela, incontra per caso una donna somala che cerca di scappare dalla detenzione e di raggiungere il marito in Europa. Lei gli chiede un piccolo aiuto, lui dapprima glielo concede ma poi le cose si complicano. La seconda volta, se vuole salvarla, dovrà mettere a rischio i risultati del suo lavoro.
Il vostro film è arrivato a Venezia ed esce il 7 settembre nelle sale, proprio nel bel mezzo delle polemiche che riguardano i rapporti con la Libia e ci è sembrata incredibile la grande attualità della vostra storia. Quando avete cominciato a pensarci? Cosa stava accadendo in quel momento?
Abbiamo iniziato a parlarne quattro o cinque anni fa. Avevamo sentito parlare di poliziotti italiani al lavoro in Libia, magari con incarichi più circoscritti. Era già valida l’idea di un’Europa a cui bastava diminuire gli sbarchi senza preoccuparsi del destino di chi veniva fermato, mentre sul piano geopolitico il potere in Libia si andava già frammentando.
A noi interessava la figura di un poliziotto che arrivasse lì con un incarico importante, mirato a fermare le persone, e che proprio con una di queste persone finisse per avere a che fare. E abbiamo pensato che l’incarico potesse essere questo.
Era una cosa plausibile, di cui già si sentiva parlare, anche in grande scala non era ancora successa e a quanto ne sapevamo poteva anche non succedere mai. Ma ci abbiamo beccato perché a sceneggiatura scritta, mentre Andrea girava il film, quello che avevamo immaginato è diventato realtà.
Spero che adesso il film serva almeno a far riflettere le persone su quello che noi europei stiamo facendo a tutta quella gente.
Un poliziotto, un funzionario del governo con pieni poteri in un paese estero pericoloso. La prima figura di riferimento che viene in mente è Nicola Calipari che ha perso la vita in Iraq. In quel caso si trattava di ostaggi, ma anche il vostro protagonista sfida il governo del paese ospite e rischia la vita in nome di un principio. A parte i baffi, che appaiono sui volti di molti poliziotti, il vostro Corrado ha qualcosa a che fare con Calipari? A chi vi siete ispirati per costruire il personaggio?
Di Calipari ne abbiamo parlato poco, forse perché sono due tipi di poliziotti diversi, con incarichi e carriere diverse, ma lui e Corrado hanno certamente in comune la determinazione e la voglia di fare bene il proprio mestiere a qualsiasi costo, il “valore”, come lo chiamerebbero loro.
Ci siamo ispirati ai molti poliziotti dell’immigrazione che abbiamo incontrato documentandoci, facendone un personaggio che ha qualcosa degli “eroi borghesi” che hanno abitato l’epica nazionale in questi anni, servitori dello stato privi di retorica ma sempre pronti al sacrificio. Ma la differenza è che a lui lo stato chiede di compiere una cattiva azione. (Spero con questo di contribuire a mettere in discussione il culto della “legalità”, che può essere stata un’utile parola d’ordine quando c’era da mettere un argine alle scorribande di Berlusconi, ma come strumento di interpretazione della realtà mi pare del tutto sopravvalutato.)
Per il personaggio di Corrado, poi, ci siamo ispirati anche un po’ a noi stessi, per l’idea di non poter stare bene senza sentirsi bravi nel proprio lavoro, per la vita piena di viaggi, di sfide, di cose che vanno fatte bene, con dei figli a casa con cui cercare di essere più presenti possibile.
Il racconto è duramente realistico, si avverte un grande lavoro di ricerca: dove e come vi siete documentati?
Andrea si occupa di queste cose da decenni ormai, e anche io nel mio piccolo all’università ho studiato scienze politiche, quindi qualcosa ne sapevamo fin dall’inizio. Abbiamo letto molto e fatto molte interviste a migranti, funzionari internazionali, cooperatori, avvocati e soprattutto poliziotti dell’immigrazione. Siamo stati più volte nella Sicilia del sud, dove all’epoca infuriavano gli sbarchi, e dove alcuni generosi poliziotti locali ci hanno aperto le porte del loro mondo. Persone serie, preparate e anche molto umane, devo dire. Un poliziotto dopo l’altro, ci avvicinavamo sempre più al profilo del personaggio del nostro film. Poliziotti internazionali, vecchie volpi dell’immigrazione, gente che conosceva Tripoli. Ricordo per esempio un’entusiasmante cena a Catania con un agente appena tornato dalla Libia. Lo ascoltavamo come fosse l’oracolo di Delfi.
Il protagonista è un ex-campione di scherma e continua a giocarla virtualmente con una piattaforma interattiva. E’ la prima volta mi pare che – pur entrando spesso nel linguaggio delle cronache politiche – la scherma venga adoperata in un film come espressione della abilità sottesa a una trattativa. E’ un fatto vero? Che valore gli avete attribuito?
Abbiamo lavorato da subito all’idea di un personaggio che nella vita è sempre stato bravo in tutto, e pensando a uno sport la scherma ci è parso quello giusto. Sia io che Andrea che Corrado, il nostro personaggio, veniamo da Padova, città con una grande tradizione di scherma. Ci sono stati molti campioni, medaglie olimpiche e via dicendo, e molte delle società sportive che la praticano sono legate alle forze dell’ordine. Poi la scherma è bella da vedere al cinema e soprattutto, come giustamente suggerisci tu, è a suo modo metaforica della vicenda di Corrado. È infatti uno sport solitario, molto tattico, in cui devi avere una grande rabbia ma devi anche saperla trattenere. Hai mai notato gli schermidori dopo una vittoria come si abbandonano all’esultanza? Come sono smodati? Svergognati, quasi, rispetto all’eleganza con cui si muovevano fino a un attimo prima. È una cosa che ho sempre trovato molto interessante, e che racconta tutto un mondo interiore, una grande energia tenuta compressa. Quando poi abbiamo scoperto che esisteva la wii della scherma, ce ne siamo innamorati per sempre.
Il film è asciutto, i dialoghi mirano all’essenziale… Come avete proceduto nella scrittura tu e Segre? Com’è nata questa collaborazione?
Io e Andrea abbiamo lavorato insieme a tutti i suoi film di finzione e anche a qualche documentario. Ci conosciamo di vista fin dall’adolescenza a Padova, ma abbiamo cominciato a lavorare insieme solo più tardi, quando io avevo già fatto un po’ di cose e lui cercava qualcuno con cui scrivere Io sono Li. Come sempre siamo partiti da un piccolo spunto e l’abbiamo allargato, abbiamo scritto prima un soggettino per il nostro produttore e poi versioni sempre più lunghe ed evolute.
Per questo film siamo anche stati a un workshop in Grecia chiamato M.F.I., dove abbiamo incontrato degli esperti internazionali che ci sono stati piuttosto utili, in particolare un vecchio sceneggiatore ceco di nome Ian Fleischer. Abbiamo fatto molte riscritture, direi quasi moltissime, anche per questioni di budget che sono emerse negli ultimi mesi. Questo, devo ammettere, ci ha dato lo stimolo per migliorare il copione, che credo sia più bello nella sua versione “economica”.
Quanto all’asciuttezza del film, credo sia dovuta a una scrittura molto razionale ma anche a un montaggio energico, aggressivo a tratti, che ha portato a un film decisamente raccolto intorno all’asse principale.
L’Ordine delle Cose cerca una forte dimensione etica: il protagonista si avventura, un po’ come Dante, nell’Inferno, scende e sale letteralmente i gradini/gironi di un disastro umanitario dove si perde il senso del vivere quotidiano. Lo avete dotato di una grande volontà di riuscire, a prescindere dai sentimenti. E anche il film ha lo stesso carattere, mi sembra, un desiderio di far bene, cancellando il sensazionalismo a favore della terribile brutalità dei fatti. Sei d’accordo?
Sì, del tutto, e ti ringrazio di questa riflessione che da solo non avevo fatto.
I rapporti personali (figli, moglie…) scorrono misurati, in stretti binari senza esplosioni di rabbia o passione. E’ un po’ una trappola, giusto?
Una trappola non saprei… a me fanno un po’ pensare al gelo borghese delle copertine Minimum Fax dei libri di Raymond Carver – non ricordo il nome del pittore – scenari familiari apparentemente sereni ma in cui tutti hanno in faccia un sorriso spaventosamente innaturale. Hai presente la canzone No surprises dei Radiohead? Ecco, quel clima lì.
Ma oltre a questo abbiamo provato a metterci qualcosa di più tridimensionale, perché in quella famiglia c’è anche la voglia di dirsi la verità. Tra Corrado e la figlia per esempio, ma anche tra Corrado e la moglie c’è un’abitudine a raccontarsi le cose e ad essere sinceri, abitudine che alla fine del film sarà andata perduta.
Segre ha dichiarato che l’obiettivo del film è mettere ognuno di fronte a noi stessi e alla nostra coscienza: che cosa avremmo fatto al posto del protagonista? Devo dire che il meccanismo funziona benissimo, che al momento giusto lo spettatore si sente dilaniato, come avete costruito il percorso interiore?
Grazie. Siamo stati molto attenti a fare sì che il dilemma di Corrado sia vissuto come tale anche dallo spettatore. In fondo, si potrebbe dire, è lo stesso dilemma di fronte a cui si trova l’Europa. Ovvero, aldilà della ridicola retorica reazionaria sui terroristi che arrivano sui barconi, le violenze sessuali etc., noi progressisti che vogliamo fare? Ce ne vogliamo fregare di questa gente o siamo disposti a un piccolo cambio di programma per trattarli con umanità?
Drammaturgicamente, pur con molte differenze, ricordo di aver pensato un po’ al terzo atto de La 25a ora, quando davvero non capisci se Edward Norton andrà in prigione o no, e tu stesso sei pieno di dubbi su cosa faresti al posto suo. Anche sul tema della colpa, La 25a ora è stato un film che ho sentito vicino.
Quello a cui siamo sempre stati molto attenti è che la missione di Corrado in Libia apparisse come il classico percorso a ostacoli del protagonista verso la vittoria, ma che al contempo quella vittoria professionale equivalesse a una sconfitta come essere umano. Perché al contrario di quanto spesso siamo portati a credere non è detto che riuscire nel tuo mestiere ti renda anche un essere umano migliore. A volte, come nel caso di Corrado, le funzioni che svolgiamo per lavoro sono peggiori della nostra natura. Ma a quale delle due vogliamo dare ascolto?
Era già tutto così nella sceneggiatura o ci sono state delle modifiche sul set?
L’assetto principale di cui abbiamo appena parlato direi di sì, era già così. Per il resto, nel passaggio dalla sceneggiatura al film c’è stata dapprima qualche rinuncia per motivi di budget e poi un montaggio molto severo, che ha portato a meno divagazioni, meno scene scherzose e meno discorsucci dei personaggi secondari. Lo ammetto: ad alcuni di questi passaggi mi ero affezionato e mi è dispiaciuto vederli sacrificare, ma è andato tutto a vantaggio di un film più preciso e asciutto. “Lucidità cartesiana”, come ha scritto Mereghetti. Quindi va bene così.
Il film ha un intento dichiaratamente sociale, perché avete deciso di accompagnarlo all’uscita con un libricino che contiene delle riflessioni sul tema: dobbiamo accettare che l’ordine delle cose sia quello che il film presenta o dobbiamo cambiarlo? Si invitano gli spettatori a rispondere online… Insomma, dalla realtà al film e dal film alla realtà: un unico flusso… Pensi che sarebbe bene diventasse una prassi? Quali saranno i passi successivi?
Non l’ho deciso io sinceramente, ma mi pare un’ottima idea e le riflessioni sul libriccino sono belle e interessanti. Ci hanno scritto Igiaba Scego, Ilvo Diamanti, Luigi Manconi l’economista Baranes e qualche altra bella penna. All’inizio del film, citando Le mani sulla città abbiamo scritto: “I personaggi e i fatti narrati sono interamente immaginari. È autentica invece la realtà sociale e ambientale che li produce”. E quindi sì, è il film stesso che afferma di avere un rapporto preciso con la realtà. Poi chiaramente è un film e non un pamphlet, e i film non si fanno per convincere le persone ma per farli riflettere.
Con questo film abbiamo avuto l’ambizione di parlare di cose importanti, quelle a cui noi per primi pensiamo tutti i giorni, e lo abbiamo fatto con l’idea di essere onesti con noi stessi e di guardarci dentro fino in fondo. Con Andrea per fortuna succede sempre così.
Dico questo perché, facendo lo sceneggiatore, mi trovo spesso di fronte alla richiesta di scrivere cose che “vadano bene al pubblico”, “che non annoino il pubblico” o che non lo “spaventino”. Laddove per pubblico si intende una massa di gente superficiale, distratta, stremata dalla vita e sempre a un passo dal prendere sonno. Beh, la merce invenduta mette tristezza anche a me, però mi rifiuto di pensare che il nostro pubblico sia fatto di gente così scadente. Immagino invece che siano persone più o meno come me, quindi certamente non dei geni, ma esseri umani con un po’ di curiosità a cui si può provare a dire delle cose interessanti. Perché avere un’esistenza culturale è anch’esso un istinto primario tanto quanto la voglia di ridere o di ballare, come la fame, come la voglia di dormire.
Che accoglienza avete avuto a Venezia? Parlo sia del film, ma in particolare di te, come sceneggiatore. WGI combatte da sempre per il rispetto del ruolo dello scrittore, del suo riconoscimento come autore al pari del regista. Alla Festa del Cinema di Roma e poi al Roma Fiction Fest siamo riusciti ad ottenere red carpet, presenza alle conferenze stampa, annuncio dei nomi in sala, quest’anno le nostre note sono state raccolte dalle Giornate degli Autori che pure è gestita dalle associazioni degli autori. Il tuo nome però non è stato fatto al Palabiennale e a nostro avviso non va bene. Che ci dici?
Dico che non va bene neanche a me. Sono stato alle Giornate degli Autori nel 2011 e ricordo di essere stato annunciato, così come anche alla Settimana della Critica. Anche nella selezione ufficiale fino a qualche anno fa gli sceneggiatori venivano annunciati, poi hanno deciso di non farlo più. “Per ragioni di tempo”, mi hanno detto quando ho chiesto chiarimenti. Ma non mi pare che fosse una procedura molto lunga.
Tanto per dirne una, sono quasi sicuro che mia madre mi abbia perdonato di non essermi laureato proprio vedendomi annunciare in Sala Grande. Oppure ricordo quello che mi disse una volta un produttore francese che mi aveva chiamato per un lavoro: “ti ho visto alzarti e salutare il pubblico e ho pensato: ecco l’uomo che cercavo”. Ricordo soprattutto l’emozione provata ogni volta, e dopo tanti applausi fatti prendere agli altri mi sembrava di meritarla. Insomma non so se si è capito, ma questa questione del mancato annuncio mi fa un po’ incazzare.
Poi ci sono la conferenza stampa, il red carpet, il passaggio in macchina dalla proiezione alla festa… tutte circostanze in cui non si sa mai bene se devi essere presente oppure no. E ogni volta è un colpo mortale al tuo narcisismo. O forse è un invito a crearti un narcisismo tutto tuo, perché in fondo lo sai che se non ci fossi tu a inventarti la storia e a scriverla come si deve tutti gli altri non avrebbero neanche un mestiere. Altro che red carpet. A partire dagli impiegati del festival con la loro fretta di concludere. Perché è anche vero che quando abbiamo cominciato a fare questo mestiere lo sapevamo già che era così, è un lavoro in cui puoi diventare importante ma non famoso, e questo in fondo è anche il suo bello.
Quanto al film, è stato accolto molto bene. La sala era molto colpita, abbiamo avuto molto spazio sui giornali e critiche lusinghiere, molta gente ci ha fermati per strada per farci i complimenti. In generale credo che essere a Venezia gli abbia giovato. “Meritava il concorso”, ci hanno detto in molti, forse per buona educazione. Il concorso ovviamente sarebbe stato meglio, soprattutto per i mercati internazionali, ma si vede che i film selezionati erano migliori del nostro. Almeno spero.
Venezia ha presentato una sezione dedicata alla VR. Sei riuscito a vedere qualcosa? Da sceneggiatore che ne pensi?
Mi sembra una cosa interessante ma sinceramente non ne so molto. Non ho simpatia né antipatia per le nuove tecnologie, cerco di usarle quando ce n’è bisogno ma non è che mi diano un godimento in quanto tali. Però ho molta simpatia per i bei film e se questo aiuta a farne allora benissimo!
(intervista è a cura di Giovanna Koch)