Un insegnante viene inviato in un remoto villaggio che si innalza tra le dune desertiche. Sarà testimone del dispiegarsi di episodi misteriosi e di tradizioni millenarie che rimarranno celate, ricoperte di ambiguità come il villaggio dalla sabbia riarsa. Presentato a Venezia nel 1984, I figli delle mille e una notte torna in laguna nella sezione Venezia Classici della 74. edizione del festival per sfoggiare le nuove vesti post-restauro.
A metà strada tra il racconto corale e il film multistream, il primo capitolo della Trilogia del deserto di Nacer Khemir si mostra alla maniera di un labirinto sfilacciato e senza centro in cui scorrazzano gli abitanti del villaggio, protagonisti ognuno di una propria epopea figlia della tradizione del racconto orale tipicamente magrebino. Che il villaggio si collochi in una dimensione intermedia tanto alla realtà quanto alla leggenda appare chiaro ancor prima della presenza sullo schermo della traccia grafica del titolo: l’insegnante chiede all’autista del bus quanto disti il villaggio dalla loro attuale posizione, sentendosi rispondere che non esiste alcun centro abitato. Si aggiunga poi, alla già evidente dimensione favolistica, la dedica del cineasta alla nonna nella didascalia iniziale, che in questa ottica rimanda di nuovo a quell’infinito serbatoio di storie tramandate di generazione in generazione, qui sublimato col racconto audiovisivo.
Alla piatta vastità del deserto tunisino Khemir risponde con minimi movimenti di macchina, quasi voglia contrapporvi l’ostentata chiusura di quelle mura cittadine percorse dai bambini oggetto di uno dei fili narrativi della pellicola: sono alla ricerca di uno sfuggente giardino che faccia rifiorire il villaggio ormai totalmente arido, rompono specchi come rituale, invocano semidei dal pozzo e vanno raccontando fandonie in giro per il paese, in una gara a chi si mostra più bugiardo e dunque – ancora una volta – capace di inventare storie, di narrare eventi in parte reali e in parte mendaci. Presenza costante in un quadro già favolistico a sufficienza è il vagabondare per il deserto dei giovani abitanti del villaggio, ormai vittime di una maledizione che li costringe a errare senza riposo. Catapultato in una tale rete di segretezze, l’insegnante (interpretato dallo stesso Khemir) reclama spiegazioni che non gli verranno concesse, finché anche lo spettatore non lo perderà di vista rimanendo solo in balia del gusto per il fantastico e degli eventi inspiegati. Più che uomo scelto per l’educazione dei giovani paesani, il protagonista pare allora fungere da simulacro del pubblico stesso, personaggio quindi che si limita a domandare, a porre interrogativi agli abitanti mancando il proprio ruolo originario di divulgatore di sapere.
Il risultato è un’opera leggiadra, ammaliante per chi ne accetti la natura eterea, seducente anche in virtù di un esotismo ben amplificato dal sonoro e dal forte contrasto visivo giallo/arancio-blu che segna il giorno e la notte di certe latitudini.