Michelangelo La Neve è il co-sceneggiatore di Ammore e Malavita, pellicola in concorso alla 74. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia con cui i registi Antonio e Marco Manetti (i Manetti Bros.) fanno irruzione in un genere cinematografico assai poco praticato in Italia: il musical.
Michelangelo, una buona storia si può raccontare in poche parole: ci fai un pitch di Ammore e Malavita?
Stressato da una vita di criminale, l’uomo che controlla il mercato del pesce clandestino a Napoli decide, insieme alla moglie, di ritirarsi mettendo in scena la sua finta morte, ma una giovane infermiera lo vede…
Tu hai scritto anche la sceneggiatura di Song ‘e Napule, come è avvenuto l’incontro con Antonio e Marco Manetti?
Ci ha presentati un mio carissimo amico, Paolo Logli. Poi abbiamo iniziato a lavorare su Song ’e Napule. Penso che siamo partiti col piede giusto, visto che sto ancora qua.
In Song ‘e Napule il mondo della musica neomelodica napoletana faceva da sfondo alla storia. In Ammore e Malavita invece la colonna sonora diventa protagonista. Come è nata l’idea di fare un musical ambientato a Napoli?
Con il produttore, Carlo Macchitella, c’era l’idea di fare Passione 2. Quello è stato l’embrione, poi, piano piano, si è arrivato all’idea di fare un musical.
Non odiarmi, ma quando ho letto la prima volta del vostro progetto mi risuonava nella memoria il sogno morettiano di fare un film musicale sul pasticciere trotzkista… Il musical è un genere davvero poco praticato dal nostro cinema. Che difficoltà avete incontrato in fase di progettazione?
Inserire le canzoni nel momento giusto e suddividerle in modo equo e funzionale tra i vari protagonisti.
Qual è il musical a cui vi siete ispirati di più per la costruzione del vostro film?
Grease senza dubbio. Per l’alchimia tra recitato e cantato e perché le canzoni hanno vita propria, al di là del contesto narrativo in cui sono inserite.
Come vi siete divisi gli oneri della scrittura con Antonio e Marco Manetti? C’è un aspetto in cui uno di voi è più versato degli altri (struttura, dialoghi, singole scene)?
All’inizio si parla molto insieme, cercando il mood giusto, l’idea che accende l’entusiasmo e fa nascere la voglia di fare il film. Di solito, in questa fase, sono i Manetti a scegliere la direzione in cui instradare la storia. Poi si cercano – a volte insieme, a volte separatamente – le idee, i personaggi, le situazioni. Poi io mi occupo della struttura della storia, ma con un confronto serrato e continuo, per riportarmi sulla “retta via” nel caso dovessi prendere una direzione non in linea con la loro idea di film. In fase di sceneggiatura, sono principalmente io a scrivere, poi vengo sommerso di note “creative” che portano continue correzioni e miglioramenti importanti.
I testi delle canzoni sono del cantautore napoletano Nelson, come si è svolta la collaborazione con lui?
C’è stato un lavoro a monte: “inventare” le canzoni, scegliere il posto giusto dove metterle e decidere quale personaggio deve cantarle, distribuendole tra i vari attori, tenendo conto sia dell’importanza del ruolo che delle loro capacità canore. Poi, in fase di sceneggiatura, abbiamo scritto una specie di soggettino di ogni canzone e, soprattutto i Manetti, hanno deciso il genere musicale delle varie canzoni. A questo punto è intervenuto Nelson che si è occupato principalmente della metrica e della poetica, facendo un grandissimo lavoro, completato in modo eccellente dalle musiche di Pivio e Aldo de Scalzi. Senza le loro bellissime canzoni questo film non avrebbe senso.
Nel film ci sono anche elementi action e di commedia. È stato difficile far convivere queste diverse anime della storia?
Mischiare action e commedia è nelle nostre corde, ci viene abbastanza naturale. La vera difficoltà è stata, come dicevo, inserire il terzo elemento, le canzoni.
Tu hai un importante background di autore di fumetti per la Sergio Bonelli editore. Sei il creatore di Esp una delle più interessanti e rivoluzionarie saghe pubblicate nel nostro paese. Quali differenze o analogie hai riscontrato nel passaggio dalla scrittura per gli albi a fumetti a quella per lo schermo?
In estrema sintesi: nel fumetto bisogna mettere il lettore in condizione di immaginare molto di più. Sulla sceneggiatura lavora una sola persona, il disegnatore, mentre nel cinema diventa uno strumento di lavoro per decine di persone. L’analogia principale è la costruzione della trama.
In quanto tempo siete arrivati alla stesura definitiva della sceneggiatura?
Difficile dirlo con precisione. Il lavoro corposo è stato fatto in 3/4 mesi. Poi si è parlato molto prima e fatte tante piccole modifiche dopo, a seconda delle necessità.
Si dice che un film si scriva tre volte: su carta, sul set e poi al montaggio. È andata così anche per Ammore e Malavita?
È un “si dice” troppo categorico. Io la vedo più come una evoluzione o una stratificazione.
Tu sei stato coinvolto nelle riprese?
Non troppo, solo quando è stato necessario.
Come avete reagito alla notizia della selezione in Concorso al Festival di Venezia?
Naturalmente, siamo tutti molto contenti. Io, però, aspetto con più ansia il momento in cui si spegneranno le luci in sala, per scoprire quali saranno le reazioni del pubblico.
Per Antonio e Marco Manetti – paladini del cinema indipendente e a basso budget sin dalle origini della loro carriera – questa vetrina ha il sapore di una consacrazione. Secondo te si tratta di un segnale del fatto che il grande pubblico stia tornando ad apprezzare la narrazione per generi?
La mia è una opinione personale, anche se vista dall’interno: i Manetti non fanno film di genere, ma film molto personali, con naturali riferimenti al cinema che amano. Poi, di certo, sono autori “indipendenti”, nel senso che hanno sempre cercato una libertà creativa. Infine, più che di basso budget, parlerei di ottimizzazione del budget, che sia basso o alto.
Sin dalla fondazione, Writers Guild Italia si batte perché venga riconosciuta agli sceneggiatori – iscritti e non – l’importanza del proprio ruolo all’interno della filiera produttiva dell’audiovisivo. Fino a poco tempo fa, nei cataloghi dei maggiori festival – compreso Venezia – gli sceneggiatori non venivano nemmeno menzionati. Da questo punto di vista qual è stata la tua esperienza in passato?
Non ho poi questo gran passato da raccontare nel cinema. Però aver scritto Song ’e Napule mi ha aperto molte porte, quindi tanto male non è andata.
Secondo te qual è la ragione di questa prassi?
Penso perché nel cinema c’è un forte lato glamour. Il pubblico è interessato agli attori e i giornalisti si accodano, com’è naturale. Poi il film è del regista e ai giornalisti interessa parlare con lui, più che con lo sceneggiatore. È giusto, nulla da dire. Poi, ovviamente, è sacrosanto riconoscere l’assoluta, enorme, gigantesca, immane, importanza della sceneggiatura. Però, diciamo che se per un attore è molto importante apparire, per uno sceneggiatore la cosa più importante è lavorare bene.
Che rapporto hai con il cinema italiano, sei uno spettatore assiduo?
Confesso di no, ma spero tanto di cambiare idea presto e di vedere qualche film italiano che mi lasci a bocca aperta.
Secondo te cosa manca alle storie che vengono scritte in Italia per colmare la distanza con il pubblico delle sale?
Per scherzo, ma non troppo, direi di girare la domanda a Checco Zalone. Comunque, la mia ricetta è spaccarsi di fatica, sforzandosi sempre di immaginare le emozioni del pubblico in sala.
C’è qualche film recente la cui sceneggiatura ti ha sorpreso? Per quale ragione?
Se parliamo di sceneggiatura, ne cito uno di qualche anno fa: Il Segreto dei Suoi Occhi. Per tutto quello che c’è dentro: personaggi, storia d’amore, sorprese, emozioni, sentimenti, dolore. Tutto raccontato con una naturalezza e un equilibrio che sfiorano la perfezione.
Puoi darci qualche anticipazione sul tuo prossimo lavoro?
Tra un po’ inizieranno le riprese di un film su un bambino fantasma.
(intervista a cura di Paolo Guerrieri)