Il compito di Venezia Classici, ovviamente coadiuvata dalla cineteche, non è tanto riproporci grande e celeberrimi capolavori come Novecento di Bertolucci, quanto invece aiutare lo spettatore a scoprire e riscoprire film poco conosciuti, difficili da reperire e che difficilmente verrebbe in mente di vedere. L’Occhio del Maligno ( l’Oeil du Malin) è una delle prime opere del grande Claude Chabrol, maestro del thriller, critico e iniziatore della nouvelle vague, autore di pellicole come Il buio nella notte o ucciderò un uomo.
Più che di film, in questa pellicola del ’62, si tratta di mediometraggio o, per usare un termine letterario, romanzo breve: in circa 70’ minuti il regista francese condensa ed esplora con un ritmo rapidissimo alcuni temi cardine della sua carriera. Il desiderio sessuale, l’invidia e l’ossessione fanno da traino per questo thriller girato splendidamente in bianco e nero e raccontato in prima persona dalla vibrante voce del protagonista, un giovane Jacques Charrier.
In Germania per un reportage, il giornalista Albin Mercier viene ospitato da un celebre scrittore, Andreas Hartman, e da sua moglie, Hélène. L’armonia che regna nella coppia suscita la gelosia di Albin, il quale cerca inutilmente di conquistare la donna.
Albin Mercier è un nome d’arte; in realtà il giornalista di nome fa Andreas, come lo scrittore, ma si rifiuta di dirglielo per un senso di inferiorità che prova nei suoi confronti. Nei due “andreas” si può leggere, considerando anche la data di uscita di questo piccolo gioiello, una “ripresa” dei personaggi più importanti de La dolce vita: Marcello e Steiner. Se nell’opera di Fellini lo sguardo di Mastroianni verso Steiner è dolce e pieno di ammirazione, in quella di Chabrol non è l’ammirazione a fare da padrone, bensì quel sentimento di invidia e odio che difficilmente si può pienamente esprimere a parole. Andreas Hartman ha tutto ciò che il giornalista francese desidera, dalla fama alla bella casa, dal grande numero di amici alla seducente moglie, con la quale non smette di scambiare effusioni, siano essi soli o accompagnati, fuori o in casa.
Albin diventa un’appendice della coppia, un parassita che si lega continuamente a loro. Addirittura invade un incontro con degli amici, infastidito dal fatto che Helene e Andreas si stessero divertendo senza di lui. Egli cerca di rubare loro un po’ di felicità e di divertimento, fino al momento in cui Andreas deve partire per alcune conferenze e Albin può finalmente cercare di conquistare la moglie. A quel punto L’occhio del maligno diventa un thriller vero e proprio, nel quale, come ha dichiarato Chabrol stesso, è difficile stabilire i rapporti di forza:
«Sarà il mio primo film legato a un determinato genere, di cui rispetterò le regole fino in fondo. L’unico punto originale deriva dal fatto che solo alla fine si scoprirà chi è la vittima e chi il carnefice. Dato che l’azione è circoscritta a tre personaggi, le combinazioni saranno solo sette, numero che corrisponde alla quantità abituale dei sospetti in un romanzo poliziesco classico».
Benché il film non sia esente da alcuni difetti, fra i quali la scrittura a volte confusionaria e il ritmo non sempre ben gestito, L’occhio del maligno è la perfetta propedeutica alla poetica di Chabrol. La pellicola mostra il talento, all’epoca non ancora pienamente sviluppato, di un regista che a soli trent’anni si era dimostrato capace di tenere insieme un’opera cinematografica. A Venezia classici e nelle cineteche, un’opera da non perdere.