Se dovessimo tracciare un filo rosso per raccontare tutta la cinematografia di Miloš Forman questo filo attraverserebbe un tema centrale, ineludibile e sofisticato: il rapporto fra la libertà dei protagonisti dei suoi film e le forme di oppressione nei vari contesti sociali in cui si trovano a vivere. Sarà per questo che fin dal suo esordio alla regia con Cerný Petr (L’asso di Picche, 1964), presentato nella sezione Classici della 74° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, Forman fa già emergere prepotentemente questa tendenza che lo accompagnerà per il resto della sua carriera: sia nel suo periodo cecoslovacco, in cui riprende la Nouvelle Vague adeguandola al contesto della Stato socialista, sia quando diventa un caposaldo della Nuova Hollywood con il suo sguardo che si concentra sugli abusi del governo statunitense (Qualcuno volò sul nido del Cuculo, 1975). Insomma, Forman attraversa vari modelli di società, antitetici fra loro, ma il suo bersaglio rimane lo stesso: l’indagine del conformismo e la genesi dei mostri che esso produce.
La fuga dal conformismo
Non è dunque un caso che in Cerný Petr il giovane protagonista Petr (Ladislav Jakim) si trova schiacciato proprio da una società conformista che ne vuole ossificare l’esistenza. Il padre moralista (Jan Vostrcil) prima lo costringe prima lavorare come guardiano di un supermercato e poi lo incoraggia a diventare un capomastro muratore. Petr però non ne vuole sapere di pensare al suo futuro: la sua adolescenza disorientata lo porta a girovagare alla ricerca di amicizie e ai primi impacciati amori, ricercando più che una posizione nella società una sua personalissima e affamata visione del mondo. La fuga dalle convenzioni sociali qui non ha niente di politico o militante, nasce piuttosto da una rivolta generazionale e dal rifiuto della mediocrità e della precocità del mondo adulto, ma tanto bastò all’epoca per accusare la pellicola di “disfattismo antisocialista”.
Generazioni e generi a confronto
A corto di budget e utilizzando quasi per la totalità attori non professionisti, Forman pedina con la macchina da presa Petr, seguedongolo nei suoi rocamboleschi confronti con amici e ragazze, e lo fa con l’inequivocabile stile della Novelle Vague di Truffaut, un cinema di rottura che dalla Francia è arrivato anche in cecoslovacchia. Il talento dell’occhio di Forman però è unico e già visibile: al suo documentarismo clinico, come durante la lunga scena di ballo, unisce la spontaneità dei dialoghi, degli sguardi e dei corpi, restituendo in modo autentico la confusione e il subbuglio degli adolescenti che cercano libertà nel rigore del Socialismo Reale. Il film di formazione nasconde però dentro un seme di rivolta: la scintilla che fa scattare il ribellismo latente del protagonista non è solo l’incomunicabilità generazionale con il mondo degli adulti ma anche il rapporto con l’altro sesso. Mentre il padre impone una visione maschilista della società, insistendo sul ruolo necessario dell’uomo e sminuendo la funzione stessa della moglie, le ragazze del film di Forman rivestono un paradigma che si ribalta: sono più lucide e forti dei propri coetanei e Petr non ne è solo attratto ma ne è totalmente assoggettato. Proprio per questo in una delle ultime scene a rubare nel supermercato, sotto gli occhi di Petr, è proprio una donna. Quel gesto si carica di una rivoluzione sessuale che anch’essa è ormai alle porte e Forman sembra averlo capito.
Opera chiave del nuovo cinema cecoslovacco e dell’approccio di Forman alla macchina da presa, Cerný Petr è dunque una pellicola fondamentale: all’epoca il film si portò a casa il premio principale al Festival di Locarno, battendo sia il Jean-Luc Godard de Il disprezzo sia il Michelangelo Antonioni de Il deserto rosso. Qualche anno dopo, nel 1968, proprio questa stessa Cecoslovacchia raccontata da Forman decise di ribellarsi al blocco Comunista con la sua Primavera di Praga.