La carriera di Godard, come quella di tanti altri artisti prolifici e longevi, non può ovviamente essere soggetta a definizioni o “limiti”. Teorico del cinema, sceneggiatore, critico e regista, il francese non ha mai smesso di rivoluzionare il suo cinema e indirettamente quello degli altri (basti pensare alle innovazioni in campo di montaggio), ha studiato la settima arte in tutte le sue forme e, parallelamente a ciò, non ha mai smesso di interessarsi alla società francese, ai costumi e alla tecnologia, infinitamente ossessionato dal futuro e dai nuovi mezzi di comunicazione.
Godard ha fatto film a proposito di Gangster, trasposizioni di romanzi come Il disprezzo o saggi (La gaia scienza), serie televisive e documentari, fra i quali il bellissimo Histoire(s) du cinema, presentando in ogni pellicola due costanti: la bellezza femminile, che in Due o tre cose che so di lei è proprio di Marina Vlady (Juliette Jeanson) e Anny Duperey (Marianne). Il secondo fil rouge Godardiano è l’interrogazione perpetua sul linguaggio, un mezzo sempre in divenire, che la bella Juliette, nel film, a seguito di una domanda del figlio, definisce con la battuta più bella del film:
“Il linguaggio è la casa dove l’uomo vive”. La protagonista del film. Giuliette, è una giovane donna, sposata e madre di tre figli, che si prostituisce consenziente il marito, per poter procurare a se stessa e alla famiglia quei beni, superflui e indispensabili, che ci offre la civiltà “occidentale”. Attraverso il personaggio di Giuliette, il regista condanna la corsa al benessere e gli altri “miti” di tale civiltà.
Il film, ora presentato in versione restaurata nella sezione Venezia Classici della 74. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, è accompagnato dalla voce di Godard, la quale, in un ulteriore segno di provocazione, pontifica sussurrando a proposito del consumismo, del marxismo, del Vietnam e dell’impossibilità di una rivoluzione, del rapporto tra soggetto e oggetto e della pervasività delle immagini e dei “magazine”, tanto che nel film compare più volte la storica rivista di moda Vogue. Due o tre cose che so di lei esce in un anno non casuale: il 1967 è l’anno caldissimo dei moti rivoluzionari, l’anno dei prodromi dell’animato “maggio sessantottino”. Godard, in quell’anno, fece uscire ben tre film: La cinese, Weekend e Due o tre cose che so di lei; opere diverse tra loro ma accomunate dal tema politico e sociale di fondo. All’interno di questo sensazionale anno, il regista francese, con Due o tre cose che so di lei, è dove si esprime peggio. Il film è un oggetto praticamente impossibile da digerire per lo spettatore, un prodotto a sviluppo “orizzontale” senza alcun tipo di trama e colmo di citazioni, messaggi e animato da uno spirito provocatore che a tratti diventa quasi risibile (basti citare il sogno del figlio di Juliette, un ragazzino che fantastica sulla riunione pacifica del Vietnam).
Due o tre cose che so di lei si rivela quindi, a 50 anni tondi dalla sua uscita, un saggio e documentario su quegli anni, nettamente imparziale e polemico, intriso della protervia e presunzione, non sempre negativa, con la quale Godard si è sempre posto nei confronti del cinema. Il suo interrogarsi sul linguaggio e sulla realtà, sulla “psicologia della forma” (così chiama un capitolo del film), diventa, in 123 minuti, ridondante ed eccessivo, impossibile da seguire e da interpretare. Godard ci lascia davanti a uno flusso di coscienza che dobbiamo accettare così come è, senza possibilità di dissentire o credere in parole diverse da quelle che ci sussurra durante la pellicola.