La guerra, la prigionia, la lotta partigiana, la liberazione. La lunga strada del ritorno, film del 1962 presentato in versione restaurata come proiezione speciale alla 74. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, ci porta direttamente dentro gli anni che vanno dal 1940 al 1945 e lo fa, come dice esplicitamente nei titoli di testa, senza nessun intento di fare storia o cronaca ma basandosi soltanto sulle testimonianze. Da un parte immagini di repertorio, spesso molto dure, dall’altra la voce di chi quei fatti li ha vissuti, ne è stato segnato nel corpo e nell’anima e che alla fine li può raccontare pur portandone evidenti le ferite fisiche e psicologiche.
Le immagini
Il lavoro di Alessandro Blasetti è approfondito e certosino. La sua ricerca di immagini di repertorio porta per la prima volta sul piccolo schermo un film organico di quanto avvenne in quegli anni, con documenti in parte inediti. Il montaggio è rigoroso e coerente. Lo stile è sobrio ma, nonostante l’argomento e il bianco e nero, non “cavalca” la drammaticità dei fatti, lasciando piuttosto che a descriverli come tali siano i testimoni diretti e di tanto in tanto qualche passaggio della colonna sonora firmata da Daniele Paris. Da questo punto di vista, pur mantenendo fede alla premessa di non voler fare cronaca, il film è un lavoro monumentale sulla guerra e in particolare su quella guerra. Un conflitto che, visto dalle generazioni cresciute con le “bombe intelligenti” riporta a un mondo che non c’è più, a situazioni di crisi risolte in altri modi, con altri metodi e con altre armi. E ci riporta soprattutto ad un’Italia diversa, dove i racconti di chi la guerra l’aveva auspicata o subita ma comunque l’aveva fatta, generava una visione senz’altro diversa dal facile interventismo, magari attraverso un comodo clic nella tastiera di un computer.
La testimonianze
Il racconto dei testimoni è il cuore pulsante del film. I testimoni parlano in una situazione dove i fatti che rievocano sono ormai alle spalle e in una situazione normalizzata dove gran parte del disastro è stato ricostruito. Attingono ai loro ricordi in abiti civili, spesso durante il lavoro di ferroviere, operaio, medico, insegnante, imprenditore. Hanno un volto ma non un nome, omesso rigorosamente. Una scelta che esalta ancora di più i racconti personali fatti di aneddoti che arrivano dritti a colpire le corde emotive dello spettatore, ma anche di un contesto a dir poco drammatico dove qualcuno paragona la sua ritirata e quella dei suoi commilitoni a un gruppo di spettri e di allucinati che lasciavano per strada senza curarsene i feriti e i malati che spesso si toglievano la vita davanti ai loro occhi per porre fine alle sofferenze. I testimoni parlano di traversate di migliaia di chilometri in mezzo alla neve russa, di azioni eroiche, del valore dei soldati italiani, ma anche della loro inadeguatezza di mezzi e materiali. E ancora della prigionia, delle torture, dei gesti di solidarietà tra prigionieri e a volte anche da parte dei nemici. Alcuni di loro hanno perfino frequentato corsi che alla fine della guerra gli hanno permesso di accedere agli esami universitari. Altri hanno ingannato il tempo e cercato una ragione di vita coltivando un orticello o allevando piccioni e api. In tutti è però ancora viva la disperazione di ciò che hanno vissuto, i ricordi della chiamata alle armi, lo strazio di famiglie divise e mai più ricomposte che hanno lasciato un segno indelebile e un corto circuito nelle storie di ognuno: “Mi chiamarono al fronte insieme a mio figlio ventenne – dice un uomo con uno stretto dialetto romanesco – poi ci divisero. Alla fine della guerra mi dissero che mio figlio era morto ma se tu non vedi quello è morto non ci credi. Se io domani rivedessi per strada mio figlio mi sembrerebbe normale”. La lucidità dei testimoni, nei loro racconti aberranti, è spaventosa e paradossalmente poetica al tempo stesso. Uno di loro parla della sua nave che affondava colpita da una bomba “e vedevo la prua in alto come se chiedesse aiuto al cielo”, mentre un altro dopo aver girovagato per migliaia di chilometri giunse in una città europea di cui non sapeva neanche il nome “ma viddi un treno che mi pareva la pace e ci salii”.
Il film
Il documentario di Alessandro Blasetti andò in onda sul secondo canale della Rai nel 1962, diviso in tre puntate. Ora, dopo il restauro a cura di Rai Teche e la presentazione in Laguna, sarà disponibile RaiPlay in versione completa della durata di due ore e dieci minuti con sottotitoli in inglese. La voce fuori campo è di Alberto Lupo, un attore all’epoca molto famoso. Alessandro Blasetti fu forse il maggior regista italiano dedito alla propaganda fascista, tuttavia il cinema deve a lui le maggiori innovazioni. Fu infatti il primo in Italia a portare sul grande schermo il sonoro e il colore. Fu anche il primo ad introdurre in una pellicola italiana un corpo di donna nudo, con la scena di alcuni secondi che riprendeva il seno di un’attrice. Per il film La lunga strada del ritorno si avvalse della collaborazione del poeta Alfonso Gatto che ne curò i testi. Se a questo aggiungiamo che nel 1962, anno in cui andò in onda in TV, la Rai era sotto lo stretto controllo democristiano, si potrebbe quasi concludere di un prodotto in perfetto stile “par condicio” ante litteram.