UPDATE: Il Cratere sarà distribuito nelle sale italiane a partire dal 12 aprile 2018 da La Sarraz Distribuzione. Nel frattempo è stato premiato con lo Special Jury Prize al Tokyo International Film Festival.
Siamo da qualche parte vicino Napoli. Sharon (o meglio Sciaròn) ha tredici anni, un bell’aspetto e una passione per il canto, e il padre Rosario, stanco di girovagare per pochi spicci tra un luna park e una fiera con la sua ‘lotteria’ su quattro ruote, decide di sfruttare il talento della ragazzina per farla diventare una star della musica neomelodica. Poco importa se per farlo dovrà sottoporre la piccola a insostenibili pressioni psicologiche.
Il Cratere è una storia sulla brama di riscatto sociale ed economico, spietata, intima ma quasi documentaristica. Soprattutto, è la più grande sorpresa della Settimana Internazionale della Critica e – forse insieme a La Vita In Comune di Winspeare – il miglior film italiano della 74. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
LA REALTÀ E LA FINZIONE SI SOVRAPPONGONO
Elementi come il canto, il rapporto padre-figlia e la Campania potrebbero far ipotizzare qualche parallelismo con quell’Indivisibili che, partendo da Venezia 73, ha rappresentato una delle pellicole-rivelazione del 2016. In realtà qui siamo su un territorio completamente diverso, e se dovessimo proprio fare un paragone sarebbe più ragionevole pensare a A Ciambra, presentato con grandissimo successo da Jonas Carpignano alla Quinzaine des Réalisateurs a Cannes: anche qui troviamo una storia di finzione che rispecchia la realtà, in cui i nomi, le identità e le vite degli interpreti coincidono con quelle dei personaggi, distanziandosene solo a tratti. Una sorta di ‘cinema del reale ipotetico’, che pare uno strumento straordinariamente forte per divincolarsi dalla retorica e dai cliché.
Nonostante il soggetto della pellicola nasca ben prima dell’incontro con i protagonisti, le vite di Rosario e Sharon Carroccia (interpreti perfetti, anche nella realtà padre e figlia, ‘giostraio’ e ‘cantante’) si inseriscono meravigliosamente nel concept iniziale e diventano un pretesto per raccontare il grande vuoto in cui quelle fasce di società spesso dimenticate dalla settima arte si dimenano nella determinata, speranzosa e a volte amorale ricerca di un miglioramento della propria condizione.
I registi e sceneggiatori Luca Bellino e Silvia Luzi (qui l’intervista fatta in collaborazione con WGI) provengono dal documentario, proprio come quella Valentina Pedicini che abbiamo ritrovato alle Giornate degli Autori, ma se la regista di Dove Cadono Le Ombre ha deciso di muoversi in direzione completamente opposta, gli autori di Il Cratere riescono a sfruttare al meglio i propri punti di forza e al contempo a creare un linguaggio personalissimo.
UN BOKEH CHE ISOLA DAL MONDO
“Bokeh” è un termine tecnico mutuato dal giapponese per indicare la resa dello sfocato, e nell’idioma d’origine significa tanto “sfocatura” quanto “confusione mentale” (binomio particolarmente adatto a Il Cratere). L’utilizzo onnipresente, creativo e del tutto inusuale per il cinema italiano (ma caro, ad esempio, a Xavier Dolan) di queste particolari prerogative date da ottiche lunghe e ampia apertura di diaframma rappresenta forse al meglio il linguaggio registico di Luca Bellino e Silvia Luzi, almeno quanto la straordinaria vicinanza al soggetto inquadrato (resa discreta proprio dalle suddette focali lunghe) e la messa a fuoco mutevole, a tratti fissa e disinteressata a seguire il soggetto, e a tratti ‘agganciata’ con un certo ritardo.
Il mondo ritratto e al contempo messo in scena dai registi è vero, tangibile. Eppure, grazie alla scelta di una visione così estrema e così diversa da quella dell’occhio umano, i cineasti riescono a far muovere Rosario e Sharòn in un universo ovattato, un ‘palcoscenico della vita’ cui i protagonisti ambiscono e che però resta così lontano, ininfluente, astratto.
Lo sguardo di Bellino e Luzi è forte di un carisma raro, e la cantilenante voce della moglie di Rosario che richiama gli avventori del luna park, quelle sigarette avidamente consumate dal protagonista che scruta il sistema di videosorveglianza, le centinaia di occhi sfusi di peluche fatti a pezzi, il tecnico dello studio di registrazione che denuncia una raucedine per gli altri impercettibile e i ripetitivi e mnemonici balletti della ragazzina davanti allo specchio, sono tutti elementi che contribuiscono quasi a ipnotizzare lo spettatore, ritraendo una Napoli che nessuno aveva mai raccontato così.
Proprio quei balletti sono l’anima di una delle più belle aperture cinematografiche degli ultimi anni, in cui Sharòn, con gli occhi tesi a ripescare nella memoria e le sue efelidi che entrano ed escono dal piano di fuoco, ripassa svogliatamente le nozioni di base del Verismo e del Realismo, mentre ripete in modo altrettanto meccanico dei passi di danza allo specchio. La camera indugia a lungo sulla scena, più di quanto sarebbe lecito aspettarsi, eppure il risultato è ammaliante e magnetico, dando il tempo allo spettatore di capire che quei precetti letterari sono quasi una dichiarazione programmatica dei registi.
La storia è semplice, ridotta all’osso, e quasi passa in secondo piano rispetto alla caratterizzazione di quest’umanità meravigliosamente fragile. Lo sviluppo narrativo ha qualche momento più debole nel finale, a tratti sbrigativo e meccanico, ma il risultato d’insieme è così folgorante che, giunti alla fine, nulla riesce a scalfire quanto portato su celluloide da Luzi e Bellino.
Il cinema italiano negli ultimissimi anni sta assistendo alla nascita di un approccio completamente diverso alla realtà (vi risparmieremo la cacofonica e già consunta definizione di neo-neorealismo), e se davvero siamo agli albori di questo ‘cinema dell’ipotetico’, gli autori di Il Cratere si candidano ad esserne tra i protagonisti. Un film assolutamente da recuperare.