Il grosso rischio, quando si fa un film come Martyr, è quello di realizzare una pellicola alla Martyr: all’interno del mondo art-house ci si ritrova spesso davanti ad opere ermetiche, volutamente incomprensibili e lente. Tuttavia l’ultima fatica di Mazen Khaled, presentata nella sezione Biennale College della 74. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, riesce ad andare oltre, sbagliando anche i tempi di regia, il tono delle scene e le scelte musicali. Nell’economia di un lungometraggio di 84 minuti, è un grosso problema se la trama non comincia a svilupparsi a trenta minuti dalla fine. Proprio quando si arriva a quello che dovrebbe essere il film vero e proprio, esso si trasforma in un’opera metacinematografica (quasi teatrale) recitata/ballata da alcuni performers che vorrebbero fare quello che fa Björk senza però riuscirci.
La rarefatta trama racconta di un gruppo di ragazzi che passano una giornata al mare, in modo sereno, finché uno di loro non muore affogato in circostanze misteriose e i suoi amici in quel momento decidono di considerarlo un martire. Al capezzale del giovane il film “finisce” e si apre un secondo atto all’interno del quale i suoi cari ricostruiscono la persona del figlio attraverso una performance artistica.
Se è difficile spiegare una trama così esigua (praticamente inesistente), lo è ancora di più raccontare l’ultimo atto del lungometraggio, quello della “performance”, ed è ancora più complicato pensare in termini cinematografici a un oggetto come Martyr. Esso è semplicemente l’ostentazione di uno “spirito d’autore”, quella sfrenata necessità che spesso investe anche il cinema italiano nel realizzare una pellicola eccessivamente inaccessibile e incomprensibile. Alla fine si tratta solo di un mero e sterile esercizio di stile, che consiste nel rarefare e spalmare pochissimi avvenimenti all’interno di un lasso di tempo esagerato (come il trasporto in taxi del cadavere del protagonista), con al centro una musica al pianoforte che accompagna le scene con gli amici.
Le metafore visive amplificano questa sensazione: vediamo infatti sequenze come la ripresa dello shampoo che cala sulla schiena del protagonista oppure i cinque minuti iniziali, dove dei primissimi piani inquadrano le parti di un corpo nudo in penombra; senza poi considerare l’attenzione verso dettagli come le dita o, semplicemente, i peli delle gambe.
Martyr fa innervosire chi lo vede e questo dispiace perché, come troppo spesso succede, si assiste ad un film poco sincero e costruito a tavolino, volutamente impermeabile e adatto solo ad un pubblico minoritario. Un peccato.
Potete vedere Martyr su Festival Scope, la piattaforma che rende disponibili in streaming e in contemporanea i film dei grandi festival, compresi quelli di Venezia 74.
Venezia 74 – Martyr: l’art-house visto dal Libano (recensione)
Il regista Mazen Khaled presenta nella sezione Biennale Cinema del Festival di Venezia un'opera non concepita per il grande pubblico.