Ad ogni rivoluzione politica che si rispetti è sempre associata una rivoluzione culturale e sociale: non da meno è stata la Rivoluzione d’Ottobre bolscevica del 1917, che aprì le porte ad un nuovo cinema d’avanguardia nell’allora neonata Unione Sovietica. Il documentario franco-russo L’Utopie des Images de la Révolution Russe, diretto da Emmanuel Hamon e presentato nella sezione Venezia Classici della 74. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, racconta questo periodo di transizione in Russia che creò un nuovo modo di fare cinema non solo a livello locale ma anche in tutto il mondo.
Essendo a corto di mezzi e soprattutto di pellicola vergine, durante la guerra civile tra il 1917 e il 1922 gli aspiranti cineasti russi furono costretti a ricorrere a vari stratagemmi pur di poter produrre qualcosa e questa situazione ispirò ad esempio uno di questi, Lev Kulešov, a sperimentare una tecnica che poi sarebbe stata chiamata “Effetto Kulešov”, in cui la stessa inquadratura provocava interpretazioni emotive diverse allo spettatore in base alle inquadrature precedenti e/o successive; ovviamente allora sperimentò questa tecnica per poter riciclare materiale già esistente ma involontariamente divenne una grande rivoluzione nella tecnica del montaggio. A soli 21 anni Kulešov diresse l’appena fondato istituto VGIK, da dove uscirono fuori registi del calibro di Vertov, Ėjzenštejn, Pudovkin e Dovženko. Se Kulešov, appena cominciò ad avere maggiori risorse per produrre i propri film, si concentrò per lo più su un cinema di genere basato su quello americano, i suoi vari allievi iniziarono a rifiutare questa concezione di fare cinema, decidendo di rompere col passato e di creare un nuovo movimento in cui le masse non sarebbero state solo spettatrici ma anche protagoniste, rappresentando le loro vite su piccola (commedie e storie d’amore con protagoniste persone dei ceti più bassi) e larga scala (per esempio le grandi opere di Ėjzenštejn, come La Corazzata Potëmkin), foraggiati inizialmente anche dall’allora intellighenzia sovietica. Col passare degli anni, soprattutto con l’ascesa di Stalin, tutto questo iniziò a sfumare, con il governo sovietico che iniziò a mettere maggiori pressioni ai cineasti fino al punto di esercitare una vera e proprio censura di Stato, anche più pesante di quella presente nell’epoca zarista.
Il documentario, usando esclusivamente immagini di repertorio o fotogrammi dei film citati dell’epoca, racconta tutto questo usando una voce narrante, riportando direttamente le parole di un’attrice che partecipò ad alcuni film di quell’epoca. Nella pellicola viene evidenziato il fatto di come, grazie anche alla libertà intellettuale che circolava in quegli anni in Unione Sovietica, ci fossero tantissimi contrasti non solo tra intellettuali e registi ma anche tra cineasti stessi, che cercavano in ogni modo di imporre il proprio pensiero riguardo al modo di fare cinema: alcuni volevano un cinema più “commerciale”, altri invece lo volevano più “intellettuale”, sostenendo quest’ultimi che alcuni film non venivano compresi per colpa del pubblico stesso, il quale doveva addirittura essere “educato” ed “istruito”. Il documentario fa riflettere sul fatto che questi contrasti permisero però di creare un panorama molto eterogeneo da un punto di vista cinematografico, in opposizione alla omologata produzione degli anni successivi controllata direttamente dal governo sovietico che portò alcuni cineasti ad allinearsi ed altri ad abbandonare il mondo della Settima Arte (alcuni addirittura si suicidarono), chiudendo idealmente la fase di passaggio dall’utopia degli “early days” sovietici al realismo socialista.
Venezia 74 – L’Utopie des Images de la Révolution Russe: l’importanza del cinema sovietico (recensione)
Il documentario, presentato nella sezione Venezia Classici, racconta gli anni più fervidi di un movimento che influenzò drasticamente il cinema mondiale.