Il concorso della sezione parallela della Settimana Internazionale della Critica, all’interno della 74. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, ha visto la presenza di ben sette opere prime provenienti da tutto il mondo; tra queste segnaliamo la pellicola svizzera Sarah Joue un Loup-Garou, diretta dall’esordiente Katharina Wyss.
Il film, basato su una storia vera, racconta la vicenda di una ragazza di 17 anni.
Sarah (Loane Balthasar) sembra un’adolescente come tante altre ma in realtà nasconde alcuni oscuri segreti, tra cui un rapporto molto ambiguo con il padre. In un ambiente familiare così opprimente e senza avere accanto qualcuno con cui confidarsi, la ragazza trova rifugio nel laboratorio teatrale della scuola. Quando recita Sarah si immerge completamente nel personaggio che interpreta ma questo si ripercuote anche nella vita reale, allontanando ulteriormente le persone che cercano di darle una mano.
Nonostante il dramma umano vissuto dal personaggio di Sarah, la regista non riesce a coinvolgere emotivamente lo spettatore come dovrebbe.
Utilizzando un formato inusuale come il 4:3 per aumentare la sensazione di oppressione, Sarah Joue un Loup-Garou prende spunto dall’episodio del suicidio per ragioni misteriose di una giovane in Svizzera per raccontare i tormenti adolescenziali di una ragazza problematica. La prima cosa che salta all’occhio è la contrapposizione tra il grande disagio interiore della nostra protagonista ed il tranquillo ambiente borghese in cui è cresciuta: ad uno sguardo superficiale, sembra difficile che ci possa essere del marcio all’interno di una famiglia benestante ed intellettuale come quella di Sarah. Andando avanti con la visione però ci accorgiamo che qualcosa non quadra dal comportamento sempre più strano da parte della protagonista (vittima di attenzioni “particolari” da parte del padre), che comincerà ad isolarsi dal resto del mondo e inventarsi di sana pianta le morti di un suo fratello (in realtà scappato via di casa) e di un fidanzato mai esistito. Per Sarah l’unica ragione di vita è il teatro, che le permette di estraniarsi da sé stessa e vestire i panni di un’altra persona; il problema è che la recitazione su di lei non ha una funzione terapeutica perché la sua personalità scomparirà poco a poco senza possibilità di ritorno. Il concept del film è molto interessante, dato che tratta in maniera non convenzionale il tema dell’adolescenza e degli abusi sessuali su minori e, da questo punto di vista, è un indubbio merito della regista della pellicola. Il problema principale di Sarah Joue un Loup-Garou sta nello script per due motivi principali: nella seconda parte cala drasticamente la tensione narrativa e il personaggio di Sarah non tocca le corde emotive dello spettatore, risultando addirittura irritante agli occhi del pubblico; più che attribuire la colpa all’attrice (Loane Balthasar ha il volto e il corpo giusto), è la caratterizzazione di Sarah che non viene sviluppata in modo adeguato (la Wyss è anche co-sceneggiatrice).
Nonostante le buone intenzioni della regista svizzera, Sarah Joue un Loup-Garou non riesce a scrollarsi di dosso l’etichetta di film da festival che, a dispetto di un buon soggetto di partenza, non sviluppa compiutamente la storia per assecondare alcuni stilemi tipici del cinema d’autore impegnato; i dialoghi rarefatti, il ritmo dilatato, le atmosfere “disturbanti” non sono ingredienti che aggiungono automaticamente qualità ad un’opera cinematografica perché, se dosati male, possono essere delle potenziali armi a doppio taglio.