Silence=mort. È questa la scritta che si legge in trasparenza sui vetri di un carro funebre. Dentro c’è una bara coperta di fiori: è quella di un giovanissimo omosessuale, malato di AIDS, che ha appena perso la sua battaglia contro il virus HIV. Si chiama Jérémie (Ariel Borenstein), ed è il più innocente tra i personaggi che popolano la nuova pellicola diretta da Robin Campillo: 120 battiti al minuto (il titolo si riferisce al tempo della musica house, individuata dal regista come colonna sonora degli anni ’90).
Vincitore del Grand Prix a Cannes, oltre che del premio Fipresci e della Queer Palm, 120 battiti al minuto è il candidato francese per la corsa agli Oscar, e sarà nelle sale italiane dal 5 novembre, distribuito da Teodora Film. Siamo nella Parigi di venticinque anni fa, nel pieno dell’epidemia di AIDS, nel cuore dell’attivismo: entriamo non visti direttamente nelle aule dove si riunisce Act Up – Paris, un movimento che nasce dalla rabbia verso l’establishment politico, medico e religioso, che, passivo e pieno di pregiudizi, è responsabile della gestione disastrosa dell’epidemia.
Un gruppo di attivisti che combatte la guerra all’HIV su tutti i fronti, a 360°, perché se è vera l’equazione silence=mort, è altrettanto vera quella che pone action=vie. Act Up affigge cartelloni per la città, incolla denunce di omofobia nei libri che stigmatizzano gli omosessuali, e si ritrova a dover sensibilizzare i gay prima ancora che gli etero. Act Up vuole ricerche mediche, nuovi farmaci, un governo presente, prevenzione nelle scuole, siringhe pulite per i tossici. Non solo “Io voglio vivere” ma anche “Io voglio che tu viva”.
Protagonista iniziale del film è il movimento nel suo complesso. Nella seconda parte, invece, il fuoco si restringe sempre più sui singoli personaggi, sulla loro intimità. Nathan (Arnaud Valois) è un giovane omosessuale scampato per miracolo al contagio, che decide di dare il proprio sostegno alla causa, e si unisci agli attivisti al principio della pellicola. Segue Sophie (Adèle Haenel), responsabile delle azioni dimostrative mirate a portare il problema all’attenzione della collettività; affianca Thibault (Antoine Reinartz), a capo della commissione medica che incalza le case farmaceutiche per trovare una cura; e si innamora si Sean (Nahuel Pérez Biscayart), giovane ma carismatico veterano di Act Up, sieropositivo. Ma Nathan non è un protagonista: la sua storia scorre al fianco di molte altre, che si intersecano tra loro nel microcosmo dell’associazione.
Il fuoco del film resta principalmente sull’associazione e sui suoi membri. Una scelta che si rende visibile nella decisione di puntare la macchina da presa quasi sempre sugli affiliati di Act Up, anche quando sulla scena sono coinvolti altri protagonisti. Set chiusi, molti primi piani, e pochissimi campi lunghi concentrano tematicamente e visivamente l’attenzione sugli attivisti. Act Up è l’occhio attraverso cui guardiamo: le reazioni del resto del mondo, se non quelle dei soggetti strettamente in contatto con i membri dell’associazione, sono quasi del tutto tralasciate.
Pochissimi sono infatti gli accenni, ad esempio, alla risposta della popolazione: tutto quello che accade fuori da Act Up viene solo evocato nella mente degli spettatori dalle parole dei suoi membri. Campillo racconta la malattia, la paura, e lo struggimento della storia tra Sean e Nathan senza scadere nel melodramma, lasciando che la sofferenza trapeli grazie alla sola forza dell’immagine, senza enfatizzarla. L’evoluzione delle relazioni personali, infatti, non è affidata a spiegazioni verbali: allo spettatore è lasciato il compito di immaginare come si sia evoluta la situazione fino ad arrivare alla scena davanti cui si trova.
In 120 Battiti al Minuto il regista scalda quello che poteva sfociare in un semplice e freddo documentario con il calore delle storie personali, con la polifonia delle voci, e con l’intensità appassionata che domina le discussioni. Puntella i 144 minuti di pellicola con immagini che, complice un uso sapiente di luci e colori, diventano estremamente suggestive. E, pur scaldandolo e colorandolo, non dimentica di ricostruire il movimento di attivisti in modo attento e fedele, ispirandosi alla propria esperienza personale: Robin Campillo si è infatti unito nel 1992 ad Act Up – Paris.
Un equilibrio perfetto tra realtà e romanzo. Pregevolissima la fluidità di montaggio all’interno dell’intera pellicola, che rende labile la divisione tra le scene. Le immagini tendono a trasformarsi le une nelle altre, senza soluzione di continuità ma senza disorientare, permettendo anzi un coinvolgimento emozionale maggiore. Le stesse luci si trascinano in una nuova scena, punti scuri fanno da sipario per una nuova immagine, piani sempre più ravvicinati rendono un dettaglio il collante tra le sequenze. Una cura visiva che incornicia il prodotto rendendolo bello senza soffocarlo nella sterile ricerca di un’estetica fine a se stessa. Un film di alto livello, da tutti i punti di vista, destinato ad essere rilevante nel panorama cinematografico internazionale dell’anno in corso.
120 Battiti Al Minuto: quando l’attivismo contro l’AIDS emoziona (recensione)
Il film di Robin Campillo, vincitore a Cannes del Gran Prix della Giuria, racconta la battaglia politica di un’associazione per contrastare il virus HIV.