Quando il 25 giugno 1982 uscì la terza pellicola di Ridley Scott, ispirata a un romanzo di Philip K. Dick (qui trovate il confronto tra libro e film), il regista si era già distinto per un inizio carriera folgorante, vincendo il ‘prix du jury pour la première œuvre’ a Cannes con I Duellanti e poi confezionando quell’Alien che non ha certo bisogno di presentazioni. Blade Runner non ricevette da pubblico e critica l’attenzione che Scott si aspettava (restò in sala solo 5 settimane ed ebbe giudizi misti), eppure si consolidò come un capolavoro del cinema moderno (anche grazie alla director’s cut del 1992), capace di creare un precedente ineludibile tanto in termini di narrativa fantascientifica on screen che di tecnica cinematografica.
L’idea di dare trentacinque anni dopo un sequel a un film così seminale sembrerebbe pura follia, mirata solo a sfruttare un ‘marchio’ amato dal pubblico per monetizzare al botteghino; eppure quando è stato annunciato che a dirigere il progetto ci sarebbe stato Denis Villeneuve, è stato anche chiaro che dal sequel avremmo potuto aspettarci qualcosa in più di una mera operazione di mercato. Infatti il regista canadese, pur avendo avuto un’ascesa decisamente più lenta rispetto a Scott, nella sua filmografia ha dimostrato di saper confezionare pellicole tanto straordinarie quanto eterogenee (Arrival, Sicario, Enemy, Prisoners, La Donna Che Canta) e di avere la rara dote di saper unire una passione per il genere con uno sguardo autoriale. Il candidato ideale, insomma.
Come ci ha rivelato lo stesso Villeneuve quando l’abbiamo incontrato (qui trovate l’intervista), ha dovuto rifletterci per mesi prima di accettare di cimentarsi con un’impresa così rischiosa, nella quale il fallimento è un’opzione decisamente concreta. Eppure, ora che l’abbiamo visto, possiamo assicurarvi che Blade Runner 2049 è superiore a ogni più rosea aspettativa.
BLADE RUNNER 2049: UNA STRUTTURA CHE SUSSUME L’ORIGINALE SPINGENDOSI OLTRE
Blade Runner 2049 è incentrato sulla figura dell’agente K (un perfetto Ryan Gosling), blade runner del Los Angeles Police Department che si imbatte per caso in un segreto che potrebbe far implodere il fragile equilibrio sociale di un mondo già allo stremo. K riceve dal luogotenente ‘Madame’ Joshi (Robin Wright) l’ordine di insabbiare tutto, ma a cercare di far luce sul mistero sono già in molti, tra i quali il magnate dell’industria dei replicanti Niander Wallace (Jared Leto, che compare a malapena). Una serie di eventi – sulla quale lo stesso Villeneuve ci ha pregato di mantenere il silenzio per non rovinare la visione – porterà K a seguire le tracce di Rick Deckard (Harrison Ford, mai così emozionante), un blade runner ormai scomparso da tre decenni.
La prima metà della pellicola, tesa a riflettere sull’esistenza di K e a raccontarci un mondo più desolato, freddo e luminoso di quello che conoscevamo, si muove con i toni meditativi, i tempi dilatati e la formula neo-noir tipici del Blade Runner originale. Le immagini fotografate da Roger Deakins che si alternano sullo schermo sono semplicemente mozzafiato, per tutta la durata della pellicola (tanto che il rischio della sindrome di Stendhal è concreto e l’Oscar certo), ma nelle fasi finali dello sviluppo dell’indagine qualche spettatore potrebbe accusare la (voluta) lentezza della prima parte della pellicola. È più o meno dall’incontro di K con Deckard che la storia cambia completamente passo, trasformandosi rapidamente da un sequel di Blade Runner a un film di Denis Villeneuve a tutti gli effetti, e da quel momento si mette in moto un’esperta macchina narrativa in cui una crescente componente action si accompagna a una sovrastimolazione del pensiero critico dello spettatore (in perfetto stile Enemy), che alla fine del film sarà costretto a scendere da una corsa sulle montagne russe in cui Villeneuve costringe il pubblico a seguirlo ovunque lui voglia.
UNA COMPLESSITÀ CHE PORTA A DUE PROTAGONISTI, COME NEI LIBRI DI PHILIP K. DICK
La carne al fuoco è tanta; tantissima. La complessità della sceneggiatura (scritta da Hampton Fancher, co-autore dell’originale, e dal Michael Greene di Logan e American Gods) ha pochissimi precedenti nel cinema fantascientifico e richiede al pubblico una concentrazione e un’apertura mentale rare. La storia di K è appassionante, la sua vita quotidiana basterebbe da sola per un film, ma ben presto il focus si sposterà sull’universo narrativo nel suo insieme, che verrà raccontato con un approccio corale e in cui i desideri, le mire e la condotta di umani reali e sintetici risulteranno sempre sfaccettati, contraddittori, non banali.
Una volta spinti in questo vortice narrativo indomabile, non faremo in tempo a cogliere una critica indiretta alla nostra società o uno stimolo sulla natura profonda dell’esperienza umana che verremo inondati di nuovi input, di altri spunti, così tanti che il film per essere compreso nella sua grandiosità richiederà più di una visione.
Il grande prestigiatore Villeneuve non ha ancora finito con noi, però, e dopo esser partito dal piccolo per poi approdare al grande (troppo grande da esser contenuto nei pur generosi 163′ di metraggio), trova un momento dialettico di sintesi nel riportare il nostro sguardo – ormai profondamente diverso – su un K cambiato, cresciuto, consapevole. Ma nel frattempo – grazie al personaggio di Ford – il regista ci ha riportato anche all’originale letterario di Philip K. Dick, e a quella peculiarità dell’autore statunitense di ricorrere frequentemente a due protagonisti per offrire due punti di vista diversi e complementari su un’unica storia.
UNA SCENA ICONICA DIVENTERÀ UNO DEI MOMENTI PIÙ BELLI DELLA STORIA DEL CINEMA DI FANTASCIENZA
Blade Runner 2049 non è un film perfetto, eppure è un capolavoro. Villeneuve è (magnificamente) bulimico di idee, ma per farci affogare in un mondo che il protagonista stesso comprende a malapena, accenna a linee narrative che sopprime rapidamente, ci costringe a mettere in discussione quel che sappiamo, a dubitare anche di noi stessi, ad accettare le regole di un gioco costruito sul rimescolamento delle carte. La necessità di ricollegarsi all’originale è (solo da un certo punto di vista) il limite di un film dall’ambizione sconfinata, e qualche momento sembra più dovuto che sentito (si pensi all’incontro con Edward James Olmos/Gaff). Ciononostante gli spunti narrativi del film di Scott non solo non vengono traditi, ma vengono portati alle loro estreme conseguenze, e benché cambino i protagonisti e le location, quell’universo sembra più vivo che mai.
Per riportare in vita l’essenza profonda della dicotomia umani-replicanti, Villeneuve si prende il rischio di rinunciare alla stessa natura dualistica della storia di partenza e ripensare la distinzione tra umano e artificiale alla luce di un mondo profondamente diverso: quello di oggi. È proprio grazie a questo approccio che assisterete a una scena che avrà per protagonista Joi (Ana De Armas) e che, a parere di chi scrive, si candida ad essere uno dei momenti più belli nella storia del cinema. Un instant cult, che riconoscerete immediatamente. Uno di quei momenti che portano ad amare il Cinema in quanto arte.
UN FUTURO FAMILIARE MA DIVERSO, TRA FACEBOOK ED ELON MUSK
Quando Ridley Scott girò il primo film il mondo era un posto completamente diverso. In Blade Runner 2049 Denis Villeneuve dimostra di averlo compreso molto bene, e pertanto si prende il rischio di portare in scena un futuro ‘al passo coi tempi’, specchio della direzione intrapresa nel frattempo dalla società.
Nel sequel di Blade Runner ritroviamo vetture a guida autonoma, droni, sonde, scanner biometrici portatili, ologrammi, ma, in modo più sottile, leggiamo anche riferimenti inaspettati, da Facebook alla psichiatria, passando per lo specismo.
Il distacco che sperimentiamo ogni giorno tra la quotidianità del vissuto (la vita ‘reale’) e la versione edulcorata e censurata che ne proiettiamo su Facebook e sui social network (la vita ‘artificiale’) trova una rappresentazione simbolica in uno dei personaggi del film, il cui scopo è per l’appunto di denunciare la solitudine, la superficialità dei rapporti umani, e anche la crescente virtualità delle interazioni che si fanno sempre più intangibili. Il celebre test Voigt-Kampff viene completamente ripensato e ora, nella sua ricerca di una risposta emotiva, porta alla mente il criticatissimo ‘manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali’ (DSM-V) con cui oggi misuriamo la normalità o la ‘devianza’.
E poi (oltre alle ‘auto intelligenti’ e alla colonizzazione dello spazio) sembrano esserci tutte quelle tematiche che sono al centro dei pensieri del magnate del tech Elon Musk e che sono diretta evoluzione dell’idea stessa di replicante: le intelligenze artificiali e la loro consapevolezza di sé, la necessità di impianti digitali per espandere il cervello umano, l’importanza di porre un limite ‘software’ alla libertà d’azione dei robot per renderli controllabili, la progettazione della colonizzazione spaziale, il rischio di sopraffazione da parte delle macchine sugli uomini. Tutti spunti già presenti nella pellicola del 1982, certo, ma che con Villeneuve assumono una sfumatura quantomai contemporanea.
UMANO, TOPPO UMANO: DA BLACK MIRROR A HER, PASSANDO PER A.I.
Il primo straordinario Blade Runner ha scritto la storia della fantascienza. Questo è sicuro. Un film di grandissima intensità e profondità che (soprattutto con la versione del 1992) ha creato un mix indimenticabile tra sci-fi e nichilismo. Questo nuovo Blade Runner 2049, però, che tipo di film è? Di cosa parla davvero?
Le influenze di cui si è appropriato Villeneuve sono tantissime: abbiamo una maggior aderenza allo stile (se non proprio alle tematiche) di Philip K. Dick ma anche una forte influenza di Asimov, abbiamo un gioco di specchi col primo Blade Runner ma ritroviamo pure la spietata critica sociale dei migliori episodi di Black Mirror, il senso di incombenza de I Figli degli Uomini, la valle perturbante di Her di Spike Jonze ma anche l’archetipico desiderio di redenzione di Pinocchio (o se preferite dell’A.I. di Spielberg).
Nonostante proietti un’ombra oscura sul futuro dell’umanità (in fuga da un pianeta morente, costretta a dare la caccia ai replicanti), questo Blade Runner del 2017 porta a simpatizzare con gli ‘umani artificiali’, a capirne le ragioni e a volerne vedere riconosciuti i diritti. Paradossalmente, nel farlo, lo script finisce per non essere nichilista ma addirittura ricco di speranza, ‘antropocentrico’ nella misura in cui ci ricorda che la conseguenza inevitabile dell’avere un’anima è il desiderio di sentirsi al centro del mondo e la volontà di lasciare un segno. Ed è proprio di questo che parla quest’opera emozionante e dalla grandissima complessità.