Mentre i Rolling Stones cantano Simpathy for the Devil, sullo schermo scorrono immagini di repertorio. Danze orientali e strade affollate si alternano a frammenti del discorso in cui Richard Nixon afferma con tono deciso il rispetto degli Stati Uniti verso la neutralità della Cambogia, sottolineando l’impegno del suo esercito ad aiutare la popolazione (e negandone l’invasione).
Le scene di ballo e frenesia vengono allora sostituite da immagini di bombardamenti, foreste incendiate e civili feriti: è il 1975 e la guerra iniziata in Vietnam sta travolgendo il suddetto stato neutrale, ritrovatosi all’improvviso conteso tra due forze politiche, il generale Lon Nol appoggiato da Washington da una parte e il Partito Comunista della Kampuchea dall’altra.
La piccola Loung osserva dallo schermo del televisore quegli avvenimenti così diversi e lontani dalla sua realtà, fatta di sorrisi e abbracci sinceri scambiati con i fratelli e i genitori. Il conflitto però è dietro l’angolo, i Khmer Rossi invadono la capitale Phnom Penh dove la bambina abita costringendo i residenti ad evacuare la città a rischio bombardamenti, spingendoli verso le campagne. Qui Loung e la sua famiglia si nascondono di villaggio in villaggio fingendosi operai, per evitare che le loro origini borghesi possano provocare ulteriori ripercussioni. Raggiunto un campo di lavoro entrano in contatto con la nuova realtà instaurata dal regime: il ripudio dell’Occidente e della vanità, dell’individualismo e della proprietà privata. I capelli vengono tagliati, gli abiti sono tinti di nero e sia adulti che bambini lavorano nei campi fino allo stremo, soffrono la fame e non possono tenere nulla per sé. Le giornate trascorrono a ritmo di minacce ed esecuzioni, ed una di queste colpisce proprio il padre di Loung, causando lo sgretolamento della famiglia; ogni figlio scappa per la propria strada cercando di salvare almeno se stesso. È durante la guerra però che la paura accende la vera speranza, e laddove c’è stata separazione può sopraggiungere inaspettata una riunificazione.
First they killed my father: a daughter of Cambodia remember, edito in Italia con il titolo Il lungo nastro rosso – è il romanzo scritto da Loung Ung (anche sceneggiatrice del film insieme alla Jolie) in cui racconta la sua sopravvivenza durante il regime di Pol Pot. Il racconto ha inspirato Angelina Jolie portandola di nuovo alla regia di quello che probabilmente è il film da lei più sentito, considerando l’impegno umanitario che da anni la coinvolge in Cambogia, e che l’ha portata ad ottenere la cittadinanza cambogiana e ad adottare il suo primo figlio Maddox.
L’obiettivo di First they killed my father, produzione Netflix da 24 milioni di budget che conferma l’attenzione di Los Gatos anche per il grande cinema non di cassetta, è quello di raccontare la sofferenza di un popolo attraverso gli occhi di una bambina, tanto che la scelta registica adottata dalla Jolie è quella di riprendere solo ciò che rientra nel campo visivo di Loung, fino a far coincidere in alcuni casi l’occhio della cinepresa con quello della piccola; si tratta in fondo della tragedia vissuta sulla sua pelle e quello che accade al di là della sua vita non è raccontato, è accennato o presunto. Il risultato è una pellicola concentrata sul potere della vista, dell’osservazione dei dettagli, dei primi piani sugli sguardi segnati dalla disperazione.
Nella sceneggiatura i dialoghi – rigorosamente in lingua khmer come i titoli di testa e di coda – sono ridotti al minimo e le parole che echeggiano maggiormente sono gli ordini strillati nei campi di lavoro o le frasi di propaganda provenienti dagli altoparlanti per l’indottrinamento del popolo. I fatti inoltre non vengono presentati secondo la logica causa-effetto della tradizionale narrazione, ma si susseguono come una cronaca seguendo la linea dell’evoluzione che segna la perdita dell’innocenza infantile: dalla schiusa di un fiore di loto che rimanda al gonfiarsi di una gonna per una giravolta si passa al desiderio di una tavola imbandita dettato dai morsi della fame, i giochi ingenui fra coetanei in città vengono sostituiti da un fucile imbracciato pronto a sparare, e dopo aver seminato il riso nei campi di lavoro si sotterrano le mine nei boschi.
Per primo hanno ucciso mio padre (questo il titolo con cui Netflix Italia cataloga il film) non crea il pathos tipico dei war movie patriottici ma riesce a donare al pubblico una testimonianza veritiera su una pagina della storia non troppo rappresentata, senza cadere in facili moralismi. È un film sulla Cambogia e per la Cambogia affinché i soprusi e la violenza subiti da un’intera popolazione non vengano dimenticati. L’accoglienza ricevuta dalla pellicola alla sua presentazione a Telluride e a Toronto è stata ottima, e in attesa di scoprire se un tale consenso basterà a valergli la nomination agli Oscar nella categoria Miglior Film Straniero, potete reperirlo direttamente sulla celebre piattaforma streaming.