Nel 1973 il mondo intero si fermò per assistere alla cosiddetta battaglia dei sessi, un match di tennis giocato tra l’ex campione del mondo Bobby Riggs e la numero due del mondo Billie Jean King. Con un premio in palio di 100.000 dollari, la partita assunse i toni di uno scontro di genere: da un lato Riggs, figlio di un’America maschilista nel senso più profondo del termine, e dall’altro una campionessa che lottava per la parità salariale fra uomini e donne (tema ancora tristemente attuale).
È proprio sulla tematica della difesa dei diritti femminili che si regge l’intera pellicola ed è proprio da questo spunto che partono i registi Jonathan Dayton e Valerie Faris (coppia nel lavoro e nella vita, dietro la macchina da presa anche in Little Miss Sunshine e Ruby Sparks) per proiettare lo spettatore nell’ambiente del tennis professionistico dei primi anni 70.
Dopo aver rifiutato un contratto che avrebbe visto un’elevata disparità fra il compenso maschile e quello femminile, Billie Jean King (Emma Stone) fonda la Women’s Tennis Association e insieme alle migliori giocatrici dell’epoca parte per una tournée in giro per gli USA, con lo scopo di promuovere il tennis femminile. L’iniziativa attira l’attenzione di Bobby Riggs (Steve Carell), campione ritirato e scommettitore incallito, mettendo così in modo una macchina narrativa che trova il suo principale punto di forza proprio nella dinamica tra la King e Riggs.
Steve Carell mette in scena un uomo ottusamente fiero della sua presunta superiorità, che non si fa problemi nel sostenere pubblicamente che il posto giusto per una donna è la cucina, mentre Emma Stone dà vita al ritratto di una ragazza forte e indipendente, dedita al suo lavoro e che accetta la propria omosessualità (interessante l’accenno alla tematica delle discriminazioni multiple). La storia d’amore che la King intreccia con la parrucchiera Marilyn Barnett (la bravissima Andrea Riseborough) ė tenera senza mai scadere nel melenso, e permette agli autori di conferire profondità al personaggio portato in scena dalla Stone, contribuendo al contempo ad innalzare la posta emotiva del racconto.
La sceneggiatura, scritta da Simon Beaufoy (127 ore), scorre senza particolari intoppi e riesce a definire con completezza le sfaccettature psicologiche dei personaggi. Nonostante questo, l’eccessiva focalizzazione della storia sulla sportiva che ha il volto di Emma Stone finisce per penalizzare l’interpretazione della Riseboeough (la cui linea narrativa viene improvvisamente tralasciata per poi riaffiorare in modo innaturale, facendo supporre che qualche momento importante sia rimasto sul pavimento della sala di montaggio). La scelta, pur comprensibile, di fare della King il principale punto d’attenzione limita inevitabilmente l’eccellente lavoro svolto da Steve Carell, che qui offre probabilmente la sua miglior interpretazione dopo Foxcatcher. Il suo ritratto di Bobby Riggs è tanto riuscito da risultare in qualche modo simpatico allo spettatore, ma non manca di suscitare un’ovvia riprovazione verso una visione maschilista non troppo lontana da quella odierna e che risulta indispensabile per far emergere per contrasto le sacrosante motivazioni della protagonista, voce fuori dal coro che rivendica con ligia serietà quanto dovutole. A prescindere dalla caratterizzazione del personaggio e dello spazio concessogli, l’interpretazione di Carell risulta comunque fondamentale per rafforzare un discorso femminista ben sviluppato e maturo, che non cade mai nella retorica dell’autocommiserazione e che elogia l’etica del lavoro a prescindere dal sesso.
Passando al comparto tecnico, la coppia Dayton-Faries (che in passato ha firmato anche videoclip per Oasis, Red Hot Chili Peppers, R.E.M., Beastie Boys e Smashing Pumpkins) conferma il proprio affiatamento, garantendo un film senza sbavature e con alcune scene di grande impatto estetico. La fotografia dello svedese Linus Sandgren è forte di colori caldi e ombre virate sul rosso, con una paletta che ricorda gli album fotografici vintage e che, così facendo, mira a contestualizzare costantemente il setting della storia e al contempo a far leva sulla componente emotiva (una scelta che ricorda visivamente le immagini di American Hustle).
Nel complesso, La Battaglia dei Sessi si inserisce nel dibattito femminista in modo gentile ma fermo, in un momento in cui sembra che Hollywood stia scoprendo l’importanza della denuncia di comportamenti deprecabili (il riferimento è ovviamente allo scandalo Weinstein) e in cui sempre più spesso ritroviamo eroine che non hanno nulla da invidiare alle controparti maschili. Se abbiamo già assistito ad operazioni analoghe in altri generi, la pellicola di Dayton e Faries riesce a portare questa denuncia anche in un contesto chiuso e maschile come quello dei film sportivi, intrattenendo al contempo. Merito non da poco.
La Battaglia dei Sessi sarà in sala da giovedì 19 ottobre su distribuzione Fox Searchlight Pictures.