Lo scetticismo era tanto. Quella storia di un gruppo di amici adolescenti che si coalizza per combattere un clown malvagio capace di incarnare tutte le loro paure è ormai parte dell’immaginario collettivo, e riportare sullo schermo (stavolta cinematografico) l’iconico Pennywise, malvagio e multiforme protagonista di It, era un compito da far tremare le vene ai polsi almeno quanto il romanzo su cui il film è basato. L’interpretazione di Tim Curry (The Rocky Horror Picture Show, Legend, Mamma ho riperso l’aereo) è memorabile e, nel corso del tempo, il libro di Stephen King ha finito per consolidarsi come oggetto di culto. Se poi consideriamo che la lavorazione dell’adattamento cinematografico ha anche avuto qualche problema – ad esempio ha visto l’abbandono della guida del progetto da parte del Cary Fukunaga di True Detective per ‘divergenze artistiche’ – allora è evidente che il regista Andrés Muschietti si muoveva su un campo minato. Eppure, It riesce ad essere un film riuscitissimo e dal bilanciamento perfetto, tanto da arrivare ad avere risultati straordinari al botteghino ben oltre il week-end di apertura (dove ha registrato il record per la più alta apertura domestica di sempre per un horror).
STRANGER THINGS E LO ZEITGEIST DEGLI ANNI ‘80
Una storia che ha riscosso un successo pressoché unanime, che ha parlato direttamente al cuore dei propri spettatori focalizzando l’attenzione sull’amicizia tra un gruppo di teenager che portano con sé ancora un po’ del candore dell’infanzia, come succedeva ancora negli anni ’80. E poi un rimando esplicito proprio al cinema d’avventura di quegli anni (quello di Spielberg su tutti) e a quel sano senso di paura che nessuno allora seppe ritrarre meglio di Stephen King – e che era costantemente presente nelle pellicole per ragazzi. E il cameratismo, il dovercela fare da soli, un villain che è male puro e per questo non può essere compreso; ma anche momenti di divertimento e dolcezza.
Se credete che questa sia la descrizione di Stranger Things nessuno potrebbe avere da ridire, eppure stiamo parlando del film It in questi giorni in sala. La confusione è legittima, perché effettivamente i punti in comune tra il nuovo adattamento di It e la popolare serie Netflix sono decisamente molti (a partire dal bravissimo Finn Wolfhard, protagonista in entrambi).
Eppure quando lo show dei Duffer Brothers ha debuttato, il film di Muschietti era già a metà produzione, e il regista ha sottolineato che, seppur incuriosito dai continui paragoni che gli venivano sottoposti, non ha voluto vederne una singola puntata fino alla fine della post-produzione del film.
L’ENTUSIASMO DI XAVIER DOLAN E STAND BY ME
Superfluo pertanto avanzare il dubbio che dietro la ricollocazione temporale della storia di It ci sia una certa malizia e che qualcuno abbia voluto cavalcare l’onda delle nostalgiche avvenuture di Eleven (o Undici, se preferite): in fin dei conti è proprio Stranger Things che attinge a piene mani dal mondo creativo di Stephen King, e il riferimento comune dei due prodotti è quello zeitgeist dell’immaginario anni ’80 che aveva già brillantemente recuperato anni fa (negli stessi termini) J.J. Abrams con il suo Super8.
Se poi proprio volessimo fare dei paragoni potremmo pensare a tratti al bellissimo Stand By Me di Rob Reiner: un coming of age ambientato in una lunga estate tra amicizia, intraprendenza e paure, ispirato al racconto The Body, proprio di Stephen King.
Come ricorda il grandissimo cineasta Xavier Dolan, che ha reso pubblico il proprio incontenibile entusiasmo verso il film: «Andate a vedere IT per amore della vostra infanzia, per le paure che avete nascosto e che non avete il coraggio di svelare. (…) per il divertente, spudorato e sacrosanto senso del piacere, per l’acume (…). Andate a vederlo per TUTTO ciò che rappresenta. È così che dovrebbe essere sempre l’intrattenimento (…). Dovrebbe sempre rispettare certi standard.»
SKARSGÅRD E I CLOWN FUORI MODA
C’è stato un tempo in cui qualcuno trovava i clown divertenti. Negli anni ’80, soprattutto in America, era un’abitudine piuttosto frequente quella di ‘invitare’ un pagliaccio alle feste dei bambini; ma oggi l’immagine dei clown (con la complicità innegabile di King ma anche del gusto gotico-caricaturale alla Tim Burton) evoca perlopiù sensazioni negative. Proprio per questo adattare nel 2017 un romanzo su un’entità che attira i bambini con il suo costume circense poteva essere un’operazione ad altissimo rischio di fallimento.
Per riuscire nella messinscena di un soggetto straordinario ma a tratti anacronistico, il regista Andrés Muschietti decide di puntare tutto sulla magistrale prova dello svedese Bill Skarsgård (Hemlock Grove): con una performance vocale schizofrenica, le peculiarità del suo volto (la capacità di far divergere gli occhi e ripiegare all’infuori il labbro inferiore), uno straordinario lavoro di costruzione dei tic e una totale imprevedibilità della prossemica, ha costruito un villain il cui straordinario carisma giustifica la perversa e contraddittoria fascinazione che Pennywise esercita sui giovani protagonisti.
È così che Muschietti ha la forza di portare sullo schermo una serie di elementi apparentemente inadattabili, e che ormai avrebbero facilmente rischiato di sfociare nel ridicolo, trasformandoli però in qualcosa che ha la forza dell’archetipo e dell’atavico, e convincendoci così ad avere paura anche di un semplicissimo seminterrato, come fossimo bambini di cinque anni.
L’ADOLESCENZA, LA GOFFAGGINE E LE COTTE
Il tono di It è la sua vera forza. Se sono assenti momenti letterari importanti (si pensi a quello del sesso di gruppo tra i protagonisti) non è per mera autocensura, ma perché l’introduzione di un certo tipo di malizia avrebbe indebolito il racconto della dicotomia tra un gruppo di ragazzini cui importa l’uno dell’altro e un mondo di adulti indifferenti alla mostruosità.
Questo inusuale binomio tra terrore e buoni sentimenti viene gestito con un sapiente alternarsi di costruzione e allentamento della tensione: la suspence e i jump scares (mai grossolani) legati a Pennywise, infatti, cedono spesso il passo a un forte senso dell’ironia.
Questa scrittura comica, tutt’altro che scontata in un contesto del genere, non è mai fine a se stessa e anzi contribuisce a costruire un senso di empatia e tenerezza verso la naïveté dei protagonisti. In particolare il personaggio interpretato da Wolfhard, con l’irresistibile contrasto tra la pesantezza delle sue battute a sfondo erotico e l’ovvia inesperienza sessuale, gode di una caratterizzazione impeccabile e incarna le molte anime del film.
Questi ragazzini mossi da un affetto sincero, di cui vediamo affiorare con grande naturalezza le personalità, le pulsioni sentimentali e (soprattutto) le paure, non sarebbero potuti esistere senza delle interpretazioni all’altezza, e in questo senso il giovanissimo cast fa un lavoro degno dei professionisti più consumati (state certi che in futuro sentiremo molto parlare di Sophia Lillis).
In conclusione It, pur prendendosi le sue libertà rispetto alle pagine di King, rimane in qualche modo fedele alla sue essenza, diventando un piccolo trattato di psicologia infantile e adolescenziale. Non propriamente un film horror, ma di sicuro un lavoro trasversale che ambisce a trascendere le barriere imposte dal genere, e vi riesce brillantemente. Una realizzazione impeccabile (d’altronde abbiamo anche il direttore della fotografia di Oldboy, lo scenografo di Rise Of The Planet Of The Apes e l’assistente al montaggio di Mad Max: Fury Road) che viene però compromessa da un inaccettabile adattamento italiano, che fa sì che i protagonisti inizino ad usare senza giustificazione alcuna pronomi inglesi: una scelta che trascina lo spettatore fuori dalla finzione magnificamente tessuta da Muschetti. Guardatelo in inglese, se potete.