Basta uno sguardo veloce alla carriera di Tim Roth per renderci conto della sua ecletticità: teatro, cinema e televisione hanno permesso all’attore 56enne di mostrare al pubblico il suo indiscutibile talento. Le collaborazioni con grandi registi – la più famosa è quella con Quentin Tarantino ma non bisogna dimenticare Woody Allen, Francis Ford Coppola, David Lynch e il nostro Giuseppe Tornatore – non hanno però evitato, nel corso degli anni, frequenti apparizioni in b-movie del tutto dimenticabili. La spiegazione viene data dal diretto interessato, dove in una recente intervista al quotidiano La Repubblica ha ammesso che il cinema è sì un’arte ma è anche un lavoro come tutti, dove bisogna guadagnare per mantenere la famiglia. Per questo motivo, quando è stato annunciato come protagonista della nuova serie tv di Sky Atlantic, Tin Star, c’era grande curiosità ma anche molto scetticismo, reduci forse dall’esperienza di Lie to Me in cui l’abilità dell’attore britannico nel dar vita al personaggio del prodigioso Cal Lightman non è bastata a compensare le lacune dello script, portando lo show alla chiusura anticipata.
La trama di Tin Star è molto semplice: Jim Worth (Tim Roth) è un detective inglese trasferitosi con la famiglia a Little Big Bear, una tranquilla cittadina dispersa tra le Montagne Rocciose Canadesi, con l’intento di allontanarsi dal suo passato tormentato dall’abuso di alcool. Nominato capo della polizia locale, Jim impone da subito il rispetto delle regole, soprattutto dopo l’arrivo della compagnia petrolifera North Stream Oil il cui obiettivo tanto decantato dalla rappresentante Elizabeth Bradshaw (Christina Hendricks) di portare prosperità economica nella cittadina cela la volontà di arricchirsi sempre di più senza alcuno scrupolo. Sarà l’ondata di criminalità legata all’afflusso di manodopera proveniente dai posti più disparati a dare del filo da torcere a Jim, tanto che una minaccia nei confronti della sua famiglia risveglierà – insieme ad altri fantasmi del passato – il suo alter ego violento, Jack Devlin.
I dieci episodi della prima stagione di Tin Star mettono in evidenza le difficoltà di una sceneggiatura più preoccupata ad ottenere l’apprezzamento e lo stupore del pubblico che creare una narrazione coerente, soprattutto in termini di gestione del ritmo. Il pilot si apre in media res mostrando già nella prima scena quello che sembra essere l’evento scatenante delle dinamiche della serie, per poi ritornare con un flashback all’inizio di tutto ovvero l’arrivo della North Stream Oil nella cittadina canadese. Questa soluzione azzardata avrebbe potuto funzionare se il ritmo narrativo fosse stato più omogeneo (non è questo il caso) e il tentativo di ricreare il pathos iniziale nulla può contro l’inconsapevolezza dello spettatore che, ignaro delle esperienze pregresse dei protagonisti, si ritrova in balia degli eventi senza comprendere minimamente quello che sta succedendo. La scelta di interrompere il racconto “sul più bello” è utilizzata a più riprese nel corso dell’intera stagione e, a lungo andare, produce fastidio anziché interesse. È chiaro fin da subito inoltre l’intento di costruire l’intera storia sul concetto di contrapposizione, secondo la logica delle apparenze che ingannano: i paesaggi da cartolina immacolati fanno da contraltare alla criminalità e alla violenza più disparata, l’indole di Jim, uomo devoto alla famiglia dalla condotta irreprensibile sul lavoro, si scontra con quella del suo alter ego, dedito all’abuso di alcool e alla brutalità (come gli animi ingenui degli altri protagonisti, che si lasciano andare ben presto a condotte discutibili).
È proprio la costruzione dei personaggi la falla principale della serie: ad eccezione del protagonista che, seppur rappresentato in modo molto confusionario, ha un background solido e credibile che giustifica le sue azioni, gli altri main characters sono privi di una caratterizzazione necessaria a rendere le loro motivazioni plausibili e a creare empatia con il pubblico. Se la moglie di Jim – interpretata da Genevieve O’Reilly – alterna repentinamente pianti disperati a lucide richieste di vendetta, è il personaggio di Christina Hendricks (la meravigliosa Joan Holloway di Mad Men) ad essere il più penalizzato: Elizabeth Bradshaw vuole imporsi come donna di successo sul lavoro ma risulta solo una macchietta, fallendo anche lo sforzo di riscattarsi nel finale (nel tentativo di mostrare il suo lato più ostinato) per colpa di dialoghi banali e poco incisivi. Una nota di merito tuttavia va espressa nei confronti del giovane talentuoso Oliver Coopersmith e del suo Whitey, probabilmente il character più riuscito dello show.
La sensazione che si prova alla fine di Tin Star è quella di trovarsi di fronte ad un prodotto riuscito a metà. Convincono l’ambientazione, il cast e anche la trama nel complesso ma è il suo sviluppo a non funzionare del tutto; nonostante la regia e il montaggio seguano alla lettera le regole da manuale del thriller per creare turbamento ed inquietudine, ci si perde nel groviglio di bugie e misteri inscenati che trovano una loro logica solo negli ultimissimi episodi. Il tentativo poi di inserire momenti di black humor in contrapposizione alla violenza irrazionale, sulla falsariga di Fargo, lasciano interdetti e non colpiscono efficacemente lo spettatore come nella serie targata FX. Tim Roth e il suo talento riescono comunque a brillare all’interno di questo dramma familiare che mescola il genere revenge col thriller; vedremo se con la seconda stagione – l’attore inglese ha dichiarato che le riprese cominceranno nel febbraio 2018 – Tin Star saprà rimediare ai propri errori.