Se si è uno scrittore di successo e si decide di far coincidere il proprio debutto alla regia con l’adattamento di un proprio romanzo che ha venduto tre milioni di copie in tutto il mondo, ci si espone come minimo al rischio di superare il labile confine tra coraggio e incoscienza. È quanto ha fatto Donato Carrisi mettendosi dietro la macchina da presa per La ragazza nella nebbia, film di genere tra il thriller e il noir presentato in pre-apertura alla 12. Festa del Cinema di Roma e nelle nostre sale dal 26 ottobre.
In un paesino sperduto sulle Alpi, un uomo distinto (Toni Servillo) rimane illeso dopo un incidente d’auto in cui non è coinvolto nessun altro, ma, sorprendentemente, ha la camicia sporca di sangue non suo. La polizia locale lo affida allo psichiatra del paese (un convincente Jean Reno) nel tentativo di far luce sull’accaduto. Mentre la pellicola inizierà a seguire la linea narrativa principale con una lunga serie di flashback, torneremo più volte a quel confronto tra medico e paziente.
Il protagonista del film, Vogel (che Carrisi ha scritto sin dall’inizio immaginando le fattezze di Servillo), è un agente di polizia specializzato in indagini difficili, inviato alcuni mesi prima sul posto per indagare sulla scomparsa della giovanissima Anna Lou. La ragazza, figlia di due seguaci di una congregazione di Cattolici pre conciliari e ultra conservatori, pare come inghiottita dalla nebbia che offusca perennemente quei luoghi e che nasconde segreti sconvenienti o addirittura inconfessabili, famiglie legate da una comunicazione fragile e da sentimenti incompiuti, relazioni equivoche. In quel limbo apparentemente isolato dal mondo nessuno sembrerebbe capace di un rapimento, eppure si potrebbe sospettare di tutti.
Il soggetto de La ragazza nella nebbia è forte, robusto, potente. Il film lo è un po’ meno; molto di meno.
I personaggi sono sospesi come la nebbia, elemento che li accomuna, li avvolge e li tiene a galla, mentre sullo sfondo permane una corruzione morale latente che alimenta il lato oscuro di ognuno. Carrisi, che con le parole ci sa fare, nel film purtroppo si incammina in un percorso borderline in cui la suspance non ha picchi da annotare sul taccuino nonostante Jean Reno ce la metta tutta per creare pathos nello spettatore (riuscendoci solo in parte, giacché quasi tutto il cast difficilmente rema nella stessa direzione). Gli attori chiamati a interpretare il film di Carrisi sono in realtà di ottimo livello (con qualche eccezione che si distingue in senso opposto), ma i molti elementi interessanti che costruiscono il plot sono spruzzati a pioggia nelle oltre due ore di pellicola, senza un filo che li tenga saldamente insieme.
Un montaggio lacunoso almeno quanto la sceneggiatura contribuisce poi a rendere tutto meno credibile eppur decisamente prevedibile, mentre l’innaturalità dei dialoghi e l’evidente assenza di indicazioni da parte della regia – che è ai limiti dell’impalpabile – si riverberano negativamente sulle performance di ottimi interpreti come Toni Servillo (pur sempre straordinariamente carismatico), Galatea Ranzi e Michela Cescon. Alessio Boni e Lucrezia Guidone, forti probabilmente di una migliore costruzione in fase di scrittura, risultano invece decisamente convincenti.
Carrisi tenta di mischiare le carte omaggiando la Frances McDomand di Fargo tramite il personaggio di Michela Cescon, citando C’era una volta in America con lo stesso suono del telefono usato da Sergio Leone e rimandando più volte (per quanto non lo ammetta) alle atmosfere de La Ragazza del Lago di Molaioli. Da quanto dice vorrebbe poi anche pescare a piene mani della filmografia di David Fincher e Jonathan Demme, per quanto la cosa non traspaia dal risultato finale. Tutto ciò però non basta a far decollare il film, generando anzi una vaga, incomprensibile e tutt’altro che necessaria sensazione di déjà vu.
Troppa carne al fuoco, probabilmente, almeno per un regista che, pur abituato a sceneggiare lavori pregevoli per la TV generalista, deve ancora farsi le ossa sul grande schermo: quando Carrisi non manca (generosamente) di sottolineare tutto il lavoro di squadra fatto sul set e quanto l’apporto del cast artistico e tecnico abbia contribuito a definire la pellicola, sembra dimenticarsi l’importanza di una direzione attenta, decisa e coerente.
Se quella di Carrisi sia stata una scelta coraggiosa o incosciente (o magari entrambe le cose) lo deciderà come sempre il pubblico. Intanto una scelta sicuramente coraggiosa l’hanno fatta Maurizio Totti e Alessandro Usai, che hanno prodotto il film (sforzo congiunto di Colorado e Medusa). Quando si tenta la via italiana al cinema di genere i risultati non sono scontati, e di questa meritevole scelta controtendenza ne va dato atto ai finanziatori. Certo, i risultati non sono ancora fantastici, ma va anche detto che si muovono in un panorama cinematografico dove la commedia la fa da padrona e dove soprattutto la raccolta del budget è faticosa. In America, tanto per intenderci, dal meraviglioso materiale messo a disposizione da Carrisi scrittore ne avrebbero tratto un prodotto alla True Detective.