Kathryn Bigelow occupa un posto importante nella storia del cinema: la cineasta californiana, grazie a pellicole indimenticabili come Point Break, Strange Days e Zero Dark Thirty, si è imposta nel panorama hollywoodiano (un ambiente dominato quasi esclusivamente da uomini) grazie al suo stile riconoscibile e senza compromessi, tanto da vincere nel 2010 l’Oscar alla miglior Regia per The Hurt Locker (prima e unica donna ad aggiudicarsi il prestigiosissimo premio). È normale quindi che ci sia sempre molto interesse attorno ai suoi progetti cinematografici e Detroit, l’ultimo film della regista presentato alla 12. edizione della Festa del Cinema di Roma, rappresenta l’ennesima grande prova di un’autrice straordinaria.
UNA PAGINA INCREDIBILMENTE VIOLENTA DELLA STORIA AMERICANA
Il soggetto del lungometraggio prende spunto dalle rivolte che sconvolsero la città del Michigan dal 23 al 27 luglio del 1967, una delle più sanguinose della storia degli Stati Uniti (la portata degli scontri fu inferiore solo alla rivolta di Los Angeles del 1992 e ai disordini di New York durante la guerra di Secessione). L’evento scatenante fu il raid della polizia all’interno di un club privo di licenza frequentato da afroamericani: da lì in poi ci fu un’escalation di violenza, culminata con i terribili abusi di cui si macchiarono alcuni poliziotti bianchi nel Motel Algiers, dove persero la vita tre ragazzi di colore.
GUARDARE A IERI PER RACCONTARE IL PRESENTE
A cinquant’anni esatti dai tragici avvenimenti di Detroit, gli Stati Uniti hanno indubbiamente fatto passi da gigante per quanto riguarda i diritti civili, ma la questione razziale è tutt’altro che sopita (la vicenda di Charlottesville ne è un perfetto esempio). Con la sua ultima pellicola Kathryn Bigelow prende una posizione netta sull’anima razzista di una certa America, mettendo in scena, fin dalla prima sequenza, le ingiustizie subite dalla minoranza afroamericana nella città della General Motors. In collaborazione con il fidato Mark Boal (giornalista e sceneggiatore con cui ha lavorato in The Hurt Locker e Zero Dark Thirty), la regista decide di utilizzare un approccio semi-documentaristico permettendo allo spettatore, grazie anche alle immagini ed ai filmati di repertorio dell’epoca, di entrare immediatamente all’interno della storia. Il montaggio serrato, l’uso massiccio della camera a mano e il frequente ricordo allo zoom richiamano l’estetica concitata e confusa delle riprese amatoriali (particolarmente attuale ai tempi di YouTube e del citizen journalism) e rafforzano quindi l’impressione di assistere a un documento del presente piuttosto che a un period drama.
IL MOTEL ALGIERS: UN CASO DI ORDINARIA FEROCIA
La prima parte di Detroit, nonostante il ritmo forsennato, ha la funzione introduttiva di presentare il contesto e i personaggi principali del film, preparando il terreno per quello che è il segmento più importante dell’intera opera: la vicenda di cronaca nera del Motel Algiers. Gli eventi della notte tra il 25 e il 26 luglio rappresentano alla perfezione tutte le contraddizioni ereditate da secoli di soprusi nei confronti delle minoranze e, dipingendo con durezza un contesto che negli ultimi cinquant’anni è rimasto pressoché invariato, la Bigelow riesce ad appassionare e creare sdegno, senza far mai calare il livello d’attenzione o il coinvolgimento dello spettatore.
Le solidissime interpretazioni di un cast in grande forma facilitano di molto il lavoro della regista, che dimostra comunque di saper portare gli attori dove vuole: a emergere è sicuramente uno straordinario Will Poulter (Revenant, Maze Runner, War Machine), che nei panni del sadico poliziotto Philip Krauss ci consegna una performance carismatica, credibilissima e ricca di sfumature, ma al suo fianco brillano le prove intense ma asciutte di John Boyega (Finn nella nuova trilogia di Star Wars) Anthony Mackie (noto al grande pubblico per il ruolo di Falcon nei cinecomic Marvel).
L’atto finale di Detroit, con una struttura narrativa a metà tra il legal e il film biografico puro, sottolinea ancora di più le prepotenze subite dalla comunità afroamericana, dato che la giustizia, che dovrebbe tutelare i diritti di tutte le persone, è stata capace (forse ancor di più dei poliziotti razzisti) di infierire sulle vittime di quei tragici eventi.
Detroit non è un capolavoro (143 minuti, anche per un lungometraggio così intenso, sono troppi) e di certo non è il film più bello di Kathryn Bigelow, ma esprime nel migliore dei modi la coerenza e il coraggio di un’artista troppo poco considerata dal grande pubblico. Un lavoro assolutamente da vedere.