Alla 12. edizione della Festa del Cinema di Roma, oltre ai film americani ed europei, c’è anche spazio per le pellicole orientali: uno dei titoli presenti nella selezione ufficiale è And Then There Was Light (titolo originale Hikari), opera giapponese del regista Tatsushi Ōmori che tratta uno dei temi più utilizzati dal cinema del Sol Levante: la vendetta.
UNA TORBIDA STORIA DI OMICIDI E TRADIMENTI
Nell’isola di Mihama vivono Nobuyuki, l’amico Tasuku (vittima di continui abusi da parte del padre) e la bella Mika. Un giorno Nobuyuki commette un crimine per proteggere l’amata ragazza e, poco dopo, uno tsunami devasta l’isola, non lasciando scampo alla maggior parte degli abitanti. Dopo un salto temporale di venticinque anni, vediamo che Nobuyuki (Arata Iura) ha messo su famiglia mentre Mika (Kyoko Hasegawa) è diventata un’affascinante attrice; i due si sono persi di vista, fino al giorno in cui ricompare Tasuku (Eita), unico testimone del crimine, disposto a mettere nei guai i suoi due ex amici per vendetta.
UN DRAMMA INTERESSANTE MA NON DEL TUTTO CONVINCENTE
Quando si tratta di raccontare vicende umane complicate, ambigue e moralmente discutibili i giapponesi non sono secondi a nessuno e And Then There Was Light ne è la conferma. Nella prima ora la pellicola di Ōmori sfrutta un buon intreccio, fatto di violenza, sesso, rapporti malati e antichi rancori difficili da superare. Il regista non si fa problemi nel mostrare situazioni morbose e al limite (questo è uno dei punti forti del cinema nipponico in generale) ma questa scelta è necessaria per sviluppare al meglio la caratterizzazione dei personaggi, persone lontane dal concetto di virtù e buoni sentimenti (solo la figlia piccola di Nobuyuki si salva, anche lei vittima degli eventi). Nel film i triangoli amorosi proibiti sono all’ordine del giorno e il ricorso al ricatto è sistematico (omicidi compresi); questi espedienti narrativi permettono di mantenere alta l’attenzione dello spettatore.
Peccato però che nella parte centrale il ritmo narrativo cali drasticamente e, in un’opera di 138 minuti, può essere un grosso problema. I tempi improvvisamente si dilatano e le scene riflessive si moltiplicano a dismisura, facendo perdere al lungometraggio quel mordente indispensabile per traghettare la storia verso il finale, che inevitabilmente risente dell’eccessivo minutaggio. And Then There Was Light sarebbe potuto durare un’ora e mezza.
Non bastano una buona regia (nonostante un paio di scelte di montaggio discutibili) e le interpretazioni valide da parte del cast per considerare la pellicola di Tatsushi Ōmori completamente riuscito: l’uso della musica elettronica da parte del regista non sempre è appropriato e il simbolismo presente, che raggiunge il culmine nell’ultima scena, risulta troppo forzato, come se il cineasta volesse rimarcare al pubblico l’autorialità del suo prodotto.
Film come Visitor Q, Vital e Big Bang Love, Juvenile A (solo per citarne alcuni) hanno portato il cinema giapponese ad un livello di sperimentazione e di coraggio nell’affrontare tematiche spinose che non esiste in nessuna altra parte del mondo: And Then There Was Light non regge minimamente il confronto con questi capolavori ma, in una rassegna come quella romana dove le storie convenzionali abbondano, un pò di follia e ambiguità nipponica sono sempre molto gradite.