In un mercato cinematografico italiano asfittico di incassi ed idee, il precedente film di Paolo Genovese è stato una vera boccata d’ossigeno: Perfetti Sconosciuti, con i suoi oltre 17 milioni di incassi, fu superato al botteghino solo dalla macchina da guerra di Checco Zalone, ma in compenso seppe proporre un soggetto tanto semplice quanto geniale, di quelli destinati all’esportazione tanto in termini di distribuzione estera che di cessione dei diritti.
L’attesa per il nuovo film del regista romano era quindi altissima: quando dopo una lunga carriera da onestissimo mestierante (Genovese ha all’attivo una decina di commedie non proprio indimenticabili e un paio di fiction Mediaset) si sforna un film come Perfetti Sconosciuti, è lecito aspettarsi che anche i lavori successivi reggano il confronto con la nuova ambizione di un cineasta ‘rinato’.
Arriviamo così a The Place, il film presentato come evento speciale alla 12. edizione della Festa del Cinema di Roma e nei nostri cinema dal 9 novembre.
Se Faust si sedesse al tavolo di un diner
La storia da cui parte The Place ha un tratto in comune con quella di Perfetti Sconosciuti: è tanto semplice quanto geniale. Come il Mephostophilis di Marlowiana memoria ‘si metteva al servizio’ del Doctor Faustus assecondandone i desideri in cambio dell’anima immortale, così l’enigmatico uomo senza nome interpretato da un solido Valerio Mastandrea, costantemente asserragliato dietro il tavolo sul fondo di un diner che sembra uscito direttamente dalle strade della Grande Mela, riceve uno dopo l’altro uomini e donne diversissimi tra loro, con la promessa di farne avverare i desideri in cambio dell’esaudimento di compiti il più delle volte riprovevoli.
Tra questi vi sono un’anziana signora dai modi garbati (una straordinaria Giulia Lazzarini), una suora che affronta una crisi di fede (Alba Rohrwacher), una bella ragazza insoddisfatta del suo aspetto (Silvia d’Amico) e il suo amico spacciatore (un Silvio Muccino al suo solito poco credibile), un non vedente depresso (Alessandro Borghi, forte del suo grande talento), un poliziotto stanco delle sue scelte sbagliate (il grandissimo Marco Giallini, qui non proprio in parte), un meccanico solo (Rocco Papaleo, sorprendente soprattutto nella prima metà della sua performance), il padre di un bimbo malato (Vinicio Marchioni) e una moglie insoddisfatta (Vittoria Puccini). A gestire il bar troviamo invece una gentile Sabrina Ferilli. Un cast mozzafiato che farebbe l’invidia di ogni regista e che, proprio come succedeva in Perfetti Sconosciuti, mette in scena una coralità di vite che si incrociano secondo percorsi tortuosi, che però in questo caso lo spettatore meno smaliziato potrà intuire già dopo la prima mezz’ora.
La copia carbone di una serie americana
I paragoni con Perfetti Sconosciuti però finiscono qui, e di per sé la cosa potrebbe essere un bene. Un regista e sceneggiatore che, anziché bissare la ricetta del suo più grande successo, decide di osare, ha in linea di massima tutta la nostra stima e simpatia. Il problema è che mentre con la sua precedente pellicola Genovese aveva dimostrato che il cinema italiano può proporre idee da esportare in tutto il mondo, con questa si impigrisce su un ‘libero adattamento’ di un’idea altrui, finendo per replicarla quasi senza alcuno sforzo di inventiva (se escludiamo in personaggio del non vedente e poco altro).
Lo script firmato da Genovese insieme ad Isabela Aguilar è infatti la riproposizione quasi pedissequa di quello della serie TV The Booth At The End: un prodotto FX che viene qui ‘rielaborato’ con una pigrizia disarmante, tanto che la maggior parte dei dialoghi sembra la mera traduzione, parola per parola, del materiale d’origine (vi basterà controllare su Netflix dopo aver visto in sala The Place).
La riproposizione di elementi dello show di partenza è tanto forzata da arrivare addirittura a conseguenze quasi demenziali: mentre il protagonista originale prendeva appunti su un piccolo bloc notes tenendo perlopiù in disparte la grossa e metafisica agenda su cui erano scritti i destini dei suoi interlocutori, il personaggio di Mastandrea segna tutto direttamente su quel grande libro, eppure quando i patti vengono consumati si ritrova a bruciare in un posacenere proprio le piccole pagine di un blocchetto (come accadeva in The Booth At The End): una scelta semplicemente irragionevole che si muove in una zona molto vicina a quella della “Festa del Grazie” dei tre sceneggiatori in Boris.
La formula della serie del 2011 ideata da Chris Kubasik (autore per molti RPG, tra cui Advanced Dungeons&Dragons) ricalca a grandi linee quella del ben più celebre In Treatment (a sua volta localizzazione dell’israeliano BeTipul): una serie di ‘sedute’ in cui, tra desideri e doveri, emergono la psiche e le storie degli interlocutori che si alternano. È questa stessa formula che ritroviamo in The Place: un’avvicendarsi di interazioni interdipendenti tra loro in un’unica location, con una sceneggiatura molto ‘scritta’ e molto teatrale. Altro punto in comune con Perfetti Sconosciuti, a ben vedere.
Un film costruito sui dialoghi, in cui i dialoghi non funzionano
Siamo dunque al grande paradosso di The Place: l’idea di base è quella di affidare l’intero svolgimento ai dialoghi tra l’enigmatico personaggio di Mastandrea e la varia umanità disposta alle bassezze più indicibili pur di veder realizzati i propri desideri, ma quel che meno funziona nel film è proprio la lingua usata dai personaggi: letteraria, statica, innaturale.
Le battute affidate a una rosa di straordinari interpreti (il cui talento emerge a sprazzi, nonostante tutto) sono catene che non solo limitano la capacità espressiva degli attori, ma li trascinano in una valle perturbante in cui la finzione scenica si impone sull’empatia dello spettatore, ricollocando tutto al contempo su un’aurea mediocritas che normalizza ogni eccesso e smussa ogni spigolo. Quella che avrebbe potuto essere una storia di grandi emozioni e slanci si trasforma così in un prodotto inoffensivo e forse scientificamente pensato per il mass market. Un rassicurante film “alla Genovese”, in cui in un modo o nell’altro tutto è destinato a risistemarsi.
Va detto che questo abbandono degli estremi è in realtà anche alla radice di una delle modifiche più interessanti del film: il ‘Mefistofele’ di turno, che nella serie originale era immediatamente individuabile come una maschera negativa (aspetto losco, barba sfatta, scarmigliato, scomposto) e solo dopo iniziava ad avere gli occhi sempre lucidi di pianto, qui diventa una figura più ambigua e interessante: un uomo dall’aspetto gentile e dagli occhi tristi che però avanza richieste immorali. In tal senso il nome di Valerio Mastandrea rappresenta una scelta di casting assolutamente encomiabile.
Rimane il fatto che, a dispetto della complessità aggiunta dal suddetto personaggio, il dipanarsi della trama si propone allo spettatore secondo uno schema piuttosto prevedibile, che conduce a un finale affrettato, ‘facile’ e debole (proprio come accadeva in Perfetti Sconosciuti, con la sua svolta ‘alla Özpetek’).
The Place è una splendida sconfitta
Sia chiaro: The Place non è affatto un film terribile. Si staglia comunque al di sopra di quel panorama di commediole nazionalpopolari che caratterizza il cinema italiano contemporaneo (trend cui Genovese ha contribuito per più di un decennio) e merita di esser visto in sala. Al netto di un montaggio altalenante – che ci regala un paio di dissolvenze a nero improponibili – la pellicola dimostra infatti anche quante potenzialità abbia il cinema nostrano: la mano di Genovese nell’inquadrare i lunghi dialoghi sa essere straordinaria e, proprio come succedeva in Perfetti Sconosciuti, la fotografia di Fabrizio Lucci e la scenografia di Chiara Balducci diventano la vera anima del film, innalzandone incredibilmente la qualità media a un livello che non ha nulla da invidiare alle produzioni Hollywoodiane.
Detto questo, e – anzi – proprio per questo, The Place finisce paradossalmente per essere una grande delusione. Al botteghino andrà benissimo, non ne abbiamo dubbi, ma dove prima avevamo un’idea freschissima qui abbiamo una copia di un prodotto già visto; dove prima trovavamo interpretazioni solidissime qui troviamo delle grandi star nostrane che arrancano barcamenandosi con dialoghi ‘finti’; dove prima il punto forte era proprio lo script ora le parole scricchiolano pericolosamente; dove prima c’era il coraggio di un’opera perfettibile ma dirompente, ora abbiamo un lavoro senza eccessi concepito per colpire, sì, ma con una moderazione borghese (la dice lunga il casting di Silvio Muccino, che di per sé somiglia a una dichiarazione d’intenti).
Stavolta Paolo Genovese avrebbe potuto veramente prendere le redini della sua carriera e diventare un timoniere in grado di guidare un nuovo cinema italiano, di cassetta ma di qualità; osando proprio come fa quella serialità televisiva che dà tanto filo da torcere alla settima arte. E invece no, non è questa la volta in cui il regista romano rivendicherà il grande talento che ha già dimostrato di avere. Considerato come ha vanificato parte della grande libertà produttiva datagli dal successo del suo precedente lavoro, potremmo dire che The Place rappresenta la sconfitta di un cinema italiano che solo sporadicamente riesce a spiccare il volo.
Ad onor del vero aggiungiamo però che fare un Perfetti Sconosciuti 2 sarebbe stato molto facile, e che a Genovese va riconosciuto il merito di non aver ceduto alla più comoda (e forse redditizia) delle soluzioni.
Ora che insieme alla Aguilar sta lavorando al suo prossimo film, The First Day Of My Life, non ci rimane che augurare a questi due talenti italiani di trovare la giusta chiave per lasciare nuovamente il segno. Perché il cinema italiano ha un disperato bisogno non tanto di qualche grandissimo film ogni paio d’anni, ma di una continuità nella qualità. Genovese è uno dei pochi registi che avrebbe i numeri per farsi carico di questa grande responsabilità, e non possiamo che augurargli la più brillante delle carriere.