Chi vi scrive adora frequentare mostre e musei, è intrigato dal sottile gioco intellettuale che si instaura davanti a una riuscita opera d’arte contemporanea e si sente appagato da quella richiesta di interpretazione attiva che un’installazione artistica avanza allo spettatore, facendo leva sulla sua apertura mentale e i suoi strumenti intellettuali.
Chiunque abbia frequentato una biennale d’arte o una struttura museale moderna, infatti, sa quanto spesso sia subdolo il dubbio che quel significato geniale che si legge in un’opera sia in realtà frutto del nostro sguardo piuttosto che delle intenzioni dell’autore; sa quanto sia alto il rischio (che poi è parte fondante del processo di fruizione) di riversare sull’oggetto della nostra attenzione significati che non ci sono. Una sorta di pareidolia interpretativa che distanzia l’idea ‘processata’ di artista dalla figura dell’individuo che ha effettivamente compiuto l’atto creativo originale.
E poi ci sono quelli cui l’arte contemporanea non interessa proprio. “Non la capisco”. “Ero capace pure io”. E l’opinione di costoro, nel suo ottuso intrinseco rifiuto, ha comunque tutta la legittimità di chi non ha colpa nel non esser stato raggiunto dall’artista. Una posizione che sembra quasi più legittima di quella degli pseudo-intellettuali compiaciuti, come quando – come può testimoniare il sottoscritto – dei visitatori si misero ad ammirare e fotografare (convinti fosse un’opera d’arte) un semplicissimo posacenere da terra al Padiglione Italia a Venezia.
UNA SATIRA SPIETATA DEGLI INTELLETTUALI COMPIACIUTI
The Square, discusso vincitore della Palma d’Oro a Cannes e dal 9 novembre nelle nostre sale, si inserisce proprio in questo discorso e, distanziandosi dalla deliziosa naïveté di Anna Longhi che viene scambiata per un’installazione in Le Vacanze Intelligenti (1978) o dell’opera che “il mio falegname con trentamila lire te la fa meglio” di Tre Uomini e Una Gamba, approccia al tema con una dissacrante verve tutta intellettuale.
La storia raccontata nel film è quella di Christian (Claes Bang), un curatore intento a lanciare una campagna virale a dir poco provocatoria per promuovere una nuova installazione del museo che dirige (chiamata The Square, per l’appunto). L’uomo, derubato proprio in quei giorni di portafoglio e cellulare, deciderà di ricorrere a ogni possibile iniziativa per riappropriarsi del maltolto, ma quando la sua idea per riavere il bottino andrà sorprendentemente a rotoli e la strategia di marketing sopra citata si rivelerà un boomerang, la sua vita ne verrà progressivamente sconvolta.
UN FILM PER POCHI, CAPACE DI PARLARE A TUTTI
The Square è un film straordinariamente intelligente e divertente. La molteplicità di significati che soggiacciono alla maggior parte delle scene del film rivela la grande sensibilità di Ruben Östlund, che qui scrive e dirige. Se forse non tutti gli spettatori sapranno cogliere gli insistiti rimandi colti presenti tra le righe dello script, di certo tutti potranno godere della gran copia di momenti esilaranti che impuntiscono il metraggio. E qui veniamo al principale pregio e difetto della pellicola.
Il film è attraversato da un’infinità di scene divertentissime, che, pur forti di significati latenti, riescono a strappare fragorose risate a ogni tipo di pubblico: un esercizio di stile che andrebbe mostrato nelle scuole di cinema come alternativa al demenziale umorismo imperante che fa leva sulla volgarità.
EPPURE SI HA L’IMPRESSIONE DI ESSER STATI ‘TRUFFATI’
Più il metraggio progredisce, però, più ci si rende conto che l’infinità di episodi comici disseminati nello script da Östlund finiscono per essere totalmente irrilevanti al fine dell’intreccio e, per l’appunto, episodici. Come in un museo si passa da una sala all’altra, godendo del momento ma non avendo bisogno di un filo conduttore che dia un significato collettivo alle opere, così in The Square assistiamo a una gag dopo l’altra, senza che queste impattino in nessun modo sul significato del film.
Abbiamo un borseggio frainteso come performance artistica, l’installazione di un monumento che va irrimediabilmente male, un incontro pubblico funestato da uno spettatore preda della sindrome di Tourette, una folla redarguita per la corsa famelica al buffet, un’installazione distrutta per sbaglio, un primate che si aggira senza un vero motivo nella stanza di una donna, un’esibizione in cui un artista senza limiti si finge un gorilla terrorizzando i ricchi invitati a una cena di gala. Tanti sketch brillantissimi e magnificamente realizzati.
Quando però, alla fine del film, si comprende che tutti quei momenti si sono alternati senza ragione alcuna; che la semplicissima storia raccontata ne avrebbe tranquillamente potuto fare a meno, allora si ha l’impressione di esser stati ingannati: è troppo troppo facile far ridere con delle scenette, e in tal senso The Square somiglia più a una spassosa puntata del Flying Circus che a un film meritevole della Palma d’Oro a Cannes. Con la differenza che le straordinarie vocalizzazioni di Bobby McFerrin, che ne accompagnano le scene, offrono un’atmosfera surreale e poetica che contribuisce a sottolineare l’ambizione del cineasta svedese.
Forse, per apprezzare The Square, il trucco è proprio quello di guardare allo schermo come faremmo a un’installazione. Sono più importanti i significati che vi leggiamo dentro, che quelli oggettivamente esposti dall’opera. In fin dei conti è pur sempre un film sull’arte.