Mudbound, film Netflix disponibile per tutti gli abbonati e che abbiamo avuto la fortuna di vedere in anteprima alla 12. edizione della Festa del Cinema di Roma, è un buon esempio di come funzioni la dicitura “originale Netflix”. A differenza, ad esempio, di quell’Okja di Bong Joon-ho che il web service di Los Gatos ha direttamente prodotto insieme a Plan B Entertainment, Mudbound è stato presentato in anteprima al Sundance Film Festival da una cordata piuttosto nutrita di produttori (Armory Films, ArtImage Entertainment, Black Bear Pictures, Elevated Films, MACRO, MMC Joule Films e Zeal Media) e solo successivamente Netflix – avendo la meglio su A24 e Annapurna – ne ha acquistato i diritti domestici (quelli che contano per la corsa agli Oscar) e poi per diversi mercati esteri.
Lo script, scritto a quattro mani dalla regista Dee Rees con Virgil Williams e adattato dall’omonimo romanzo di Hillary Jordan, affronta le tematiche del razzismo e del disturbo post traumatico da stress raccontando la storia di due famiglie nell’America rurale degli anni ’40, i McAllen e i Jackson, che vengono investite del compito di rappresentare archetipicamente la condizione di bianchi e neri negli USA della prima metà del secolo scorso.
LA GUERRA CHE ABBATTE LE BARRIERE
Henry McAllen (Jason Clarke) sposa Laura (Carey Mulligan, la Daisy de Il Grande Gatsby di Luhrmann) e dopo qualche tempo si trasferisce con la nuova famiglia in una fattoria nel Mississippi. Accanto a loro vivono i Jackson, mezzadri afroamericani che coltivano la terra da generazioni. Tutto scorre in una quotidianità intrisa di malcelato razzismo, fin quando la Seconda Guerra Mondiale non irrompe indirettamente nelle tranquille vite di campagna: per il fronte partono i bianchi, come il pilota Jamie McAllan (Garrett Hedlund), fratello di Henry, ma anche i neri, come Ronsel Jackson (Jason Mitchell), arruolato nella fanteria.
La guerra, per quanto possa sembrare un ossimoro, porta una ventata d’aria fresca nell’opprimente clima razzista dell’America di quegli anni. Ronsel, in Europa, ha assaporato il gusto dell’uguaglianza, vi si è abituato, e quando torna – forte anche della consapevolezza di aver combattuto per la propria patria – non riesce più ad accettare con silenziosa accondiscendenza i soprusi razzisti. La guerra porta così in America il germe dell’emancipazione sociale e un primo impulso per l’abbattimento delle barriere razziali.
Uniti dai ricordi devastanti della battaglia, dal disturbo da stress post traumatico e dalla nostalgia per una situazione in cui, seppur in pericolo, erano considerati eroi liberatori, Jamie e Ronsel, divisi dal colore della pelle, sperimenteranno un’amicizia profonda. Questa si manifesterà in tutta la sua grandezza nelle interpretazioni di Jason Mitchell e Garrett Hedlund quando i loro personaggi si troveranno ad affrontare insieme l’odio razziale del Ku Klux Klan.
UN PUNTO DI VISTA ORIGINALE
Centralissima, più che il tema del razzismo, una declinazione particolare della guerra, analizzata rovesciando la prospettiva: senza soffermarsi sugli orrori della trincea, la pellicola focalizza l’attenzione sulla sua capacità di essere potente crogiuolo e propulsore di nuove idee e concezioni che, dall’Europa, viaggiano sui carri armati fino al rientro in America.
Più che analizzare in che modo la guerra cambia gli uomini, nonostante questo tema sia comunque molto presente, Mudbound ci mostra come la guerra cambi la società, definendola come un drammatico punto di snodo per la circolazione del pensiero, e sottolineandone la funzione di livellatrice sociale.
L’originalità del punto di vista va a favore di una pellicola che affronta per l’ennesima volta un tema più che ampiamente trattato, il più delle volte non senza una certa retorica. Adeguata la contestualizzazione del reinserimento dei reduci nella società civile. “Non riesce a muoversi e neppure a stare fermo” Dirà Florence Jackson (Mary J. Blige), la madre di Ronsel, condensando in queste poche parole la fossilizzazione dei reduci in un eterno presente intriso di violenza. Un passato inaffrontabile, tanto che chiunque sia in grado di condividerne l’orrore viene avvertito istintivamente come profondamente vicino, a prescindere da qualsiasi barriera economica, sociale o razziale, che poteva sussistere prima della grande partenza.
LA PROSPETTIVA INDIVIDUALE E IL FINALE DEBOLE
Mudbound ha ricevuto ovunque un consenso pressoché unanime, tuttavia, nonostante si presenti come un prodotto con grandi slanci, viene il dubbio che una pregiudiziale verso la tematica impegnata porti ad essere troppo indulgenti con alcuni aspetti che avrebbero potuto funzionare meglio.
Il focus estremamente ridotto della pellicola, concentrato su due sole famiglie, porta infatti a declinare in modo troppo individuale il problema della segregazione razziale. Lo spettatore viene immerso nelle singole vite più che in una temperie sociale, tanto che inizialmente non è chiaro quale direzione voglia prendere la sceneggiatura. I coniugi McAllen vengono presentati in modo estremamente neutro, e sono quasi ininfluenti nella rappresentazione della segregazione degli afroamericani, mentre le figure di Pappy McAllen (Jonathan Banks, il Mike di Breaking Bad), razzista della peggior specie, e Jamie, che riscatta l’umanità dell’uomo bianco, diventano ben più paradigmatiche – forse troppo.
Se l’originalità del punto di vista riesce per quasi tutto il metraggio a disinnescare l’alto rischio di propensione alla retorica insito nella tematica, gli ultimi minuti vanificano però gli sforzi precedenti con un finale che delude le aspettative: Ronsel celebra il trionfo dell’amore sull’odio con parole melense, mentre prende il sopravvento un buonismo che sembra più un ammiccamento allo spettatore che un ritratto di un’America che tutt’oggi deve affrontare tematiche come quella del “black lives matter”. Una scelta opinabile che inquina la crudezza di un affresco molto ben confezionato della società statunitense, di cui consigliamo comunque la visione. È pur sempre l’ennesimo successo di Netflix, che avrà un suo peso nella stagione dei premi.