Era esattamente trentaquattro anni fa, il 19 novembre 1983, quando il tentativo di dirottamento del volo Aeroflot 6833 veniva represso nel sangue, con otto morti (tre dirottatori, due passeggeri e tre membri dell’equipaggio) in seguito all’intervento delle forze speciali sovietiche Alpha Group e la cattura e la promessa di un rapido processo destinato a sentenziare l’esecuzione capitale per i dirottatori sopravvissuti.
È questa la storia che Rezo Gigineishvili mette in scena in Hostages (titolo originale Mzevlebi), passato alla 67. Berlinale nella sezione Panorama e poi presentato alla 12. edizione della Festa del Cinema di Roma; un dramma che mira a una testimonianza politica raccontando la vicenda umana dei protagonisti di quel disperato atto criminale.
FUGA DALLA CORTINA DI FERRO
L’essenza di Hostages è intessuta prevalentemente su quelle giovani vite che, con un gesto sconsiderato, cercavano di imprimere una svolta alle proprie esistenze.
I sette dirottatori sono prima di tutto dei ragazzi la cui identità culturale ha uno stampo occidentale, figli di famiglie dabbene cresciuti con le note dei Beatles e che aspirano a trovare una propria dimensione oltre la Cortina di Ferro. Quel volo decollato da Tbilisi, in Georgia, non arriverà mai alla destinazione designata di Leningrado, eppure l’intento di dirottarlo in Turchia verrà vanificato dal pilota del velivolo, che riporterà il mezzo a terra, dove su ordine del leader georgiano Eduard Shevardnadze verrà intercettato dalle teste di cuoio russe.
UNA FOTOGRAFIA ORIGINALE PER UNA STORIA DI DELITTO E CASTIGO
Il clima della pellicola è cupo, opprimente come il contesto sociale cui i protagonisti vogliono sottrarsi, e dopo una costruzione mirata a creare empatia con i futuri dirottatori ha successo nel costruire una tensione continua e vibrante, che percorre il metraggio nelle sue dinamiche di ribellione, delitto e castigo.
La fotografia firmata da Vladislav Opelyants (autore delle immagini anche del Parola di Dio presentato a Cannes nel 2016) cerca di valorizzare il ridotto contrasto e i neri poco compressi tipici delle macchine da presa digitali, offrendo colori tenui solo apparentemente inadatti alla crudezza della storia, e affidandosi anche a un leggero split toning che, raffreddando le ombre e virando al giallo le luci, tende a riprodurre pur con un sapore vintage e poco marcato l’ormai abusata dinamica dell’orange and teal.
A contribuire all’impressione di un mondo ovattato e confuso, in cui le individualità degli aspiranti fuggitivi si dimenano alla ricerca di un’identità, vi è poi la scelta di incorniciare costantemente il centro dell’inquadratura: con l’utilizzo di riverberi di luce e bokeh, con una vignettatura piuttosto marcata o con un percepibile decadimento della messa a fuoco verso gli angoli del frame, la camera sembra voler guidare costantemente il nostro occhio, ‘dirottarlo’ verso la storia che vuole raccontare.
LA RUSSIA, I RUSSI E IL (DIS)VALORE DELLA RISOLUTEZZA
L’interpretazione offerta dal giovane cast è sempre convincente, così come lo è la realizzazione curata di Gigineishvili, che firma anche lo script in collaborazione con il premiato romanziere e drammaturgo georgiano Lasha Bughadze.
Il risultato è una pellicola che, pur ambientata nel 1983, ci ricorda quanto la censura di legittime ambizioni e un profondo gap culturale dividano ancora oggi molte realtà della geopolitica moderna, indipendentemente dai paralleli o dai meridiani di riferimento. La Russia ha sempre avuto una determinazione cieca e implacabile quando si è trattato di intervenire in situazioni di crisi (dall’abbandono del sottomarino Kursk alla disastrosa irruzione nella scuola di Beslan, passando per i gas velenosi del teatro Dubrovka), ma, a dispetto dell’esito, in Hostages sono i cittadini dell’URSS a dimostrare una volontà ancor più ferrea di sottrarsi alle maglie di un regime reazionario.