Gli ultimi anni hanno visto un fiorire continuo e costante di opere ispirate agli ’80s, alla loro estetica e alla loro mitologia. Dai film alle serie, passando per la musica, l’onda lunga di quel decennio si è abbattuta sull’industria culturale del nostro tempo, ribadendo ancora una volta quanto quel periodo sia stato fondamentale nel plasmare l’immaginario collettivo contemporaneo.
Dietro la riscoperta di un’era che, nel bene e nel male, ha condizionato un’intera generazione, ci sono ovviamente anche grandi opportunità economiche, e la strada che dall’inatteso successo di Stranger Things ha portato alla ricollocazione temporale di It rappresenta in modo emblematico come l’incontro di un immaginario collettivo trans-generazionale con i topos della narrazione popolare degli Eighties possa rappresentare una scelta vincente. Opere come quella dei Duffer Brothers riescono a coinvolgerci con tanta forza citando insistentemente lavori che, quando uscirono, ebbero invece un fortissimo impatto sulla settima arte in virtù della propria originalità.
L’IMMAGINARIO DI JOHN CARPENTER
Non parliamo solo dei film di Steven Spielberg o dei libri di Stephen King. Tra i nomi più influenti di quegli anni c’è anche quello del grandissimo autore statunitense John Carpenter. L’orrore generato da ciò che è estraneo, alieno, soprannaturale, rimosso e nascosto e che mette gli uomini di fronte alle loro paure e fragilità, senza trasformarli in eroi (ma al massimo in anti-eroi): questo segna il cinema di Carpenter. Uno sguardo che scruta nelle strane pieghe della realtà, fra i suoi interstizi semi nascosti agli occhi di chi non riesce o non vuole vedere ciò che c’è al di là, e che, soprattutto, non è mai pacificato, mai risolutivo, bensì aperto al continuo sgorgare e riaffiorare del male.
Tramite i suoi movimenti di macchina lenti e quasi impercettibili, il cineasta americano si metteva da parte e diveniva lui stesso spettatore delle proprie visioni: l’abomio mutaforma in La Cosa, l’oscurità senza fine dietro alla maschera di Michael Myers, il ghigno beffardo e lo sguardo impenetrabile di Snake Plissken, l’inesorabile discesa nell’assurdo in Il seme della follia, così come tanti altri film prodotti tra la metà degli anni ’70 e il 2010, hanno segnato una nuova via per il cinema horror e di fantascienza, fra successi commerciali e flop che hanno fatto in modo che Carpenter si allontanasse spesso e volentieri dall’industria hollywoodiana per produrre indipendentemente i suoi film. Se c’è un autore al quale il termine “cult” aderisce completamente, quello è indubbiamente John Carpenter.
IL RUOLO DELLA MUSICA NEL CINEMA DI CARPENTER
Queste visioni però non avrebbero avuto la stessa forza se non fossero state accompagnate da commenti sonori spesso indimenticabili, che hanno segnato in maniera indelebile l’estetica musicale e cinematografica a partire dalla fine degli anni ’70 in poi.
La musica, in particolare l’amore per il rock ‘n’ roll, ha sempre accompagnato il regista americano, e anche se la sua formazione musicale è sostanzialmente da autodidatta, Carpenter ha saputo curare, scegliere ed adottare la giusta soundtrack per i suoi film. Si potrebbe sostanzialmente dire che le colonne sonore sono la trasposizione in musica della sua narrativa, tanto che in alcune pellicole questi due elementi non possono essere considerati indipendentemente. Basti pensare al tema di Halloween: un semplice giro di pianoforte in 5/4 in cui le armonizzazioni guidano l’atmosfera caratterizzando ambientazione, vicenda e personaggi; per l’immaginario collettivo è impensabile scindere questi elementi.
JOHN CARPENTER ANTHOLOGY (MOVIE THEMES 1974 – 1998)
Eppure il fascino delle musiche di Carpenter non si ferma a questo. Puntando tutto sulla semplicità d’esecuzione e il minimalismo sonoro (scambiati erroneamente da alcuni per monotonia dettata dalla mancanza di idee), egli è riuscito a creare dei piccoli bozzetti sonori che assumono vita propria, indipendentemente dalle scene e dalle storie per le quali erano stati creati. Preceduto proprio dall’affascinante remix del tema di Halloween, ad opera di Trent Reznor ed Atticus Ross, quasi a voler tracciare un arco temporale che unisse due mondi solo apparentemente distanti, John Carpenter Anthology (Movie Themes 1974 – 1998) è qui a testimoniare la vitalità e l’attualità della musica carpenteriana, collocandosi subito come qualcosa a metà strada fra il greatest hits e un album di inediti vero e proprio.
Greatest hits, da un lato, perché il disco propone tredici tracce (quindici nell’edizione limitata in vinile), pescate soprattutto fra i vari main themes del regista, dove ogni carpenteriano che si rispetti si ritroverà a casa e non potrà fare a meno di gioire nell’avere su un unico disco alcune delle sue musiche preferite.
Una sorta di album di “nuovi” pezzi dall’altro, invece, perché l’operazione riesce intelligentemente ad evitare l’effetto nostalgia non suonando datata. I brani, infatti, sono stati interamente risuonati e, in alcuni punti, arrangiati nuovamente, godendo soprattutto di una produzione cristallina e ultra pulita che esalta ogni nota di piano, synth, chitarra, basso e batteria elettronica suonata da Carpenter, affiancato da suo figlio Cody e da Daniel Davies come già avvenuto su Lost Themes del 2015.
La sensazione di stare quasi ascoltando un disco di inediti è data anche dal fatto che i brani sono disposti non in una classica sequenza cronologica (a dispetto del titolo che parla chiaro), bensì tracciando un filo musicale ben preciso e dai contorni molto compatti. Anche quando Carpenter coverizza gli unici due pezzi in scaletta non scritti da lui, ovvero i temi The Thing e Starman, rispettivamente di Morricone e Jack Nitzsche, riesce a mantenere inalterato il suo stile dinamico ed emotivamente coinvolgente, facendo risultare questi pezzi perfettamente integrati con gli altri.
Da un punto di vista prettamente musicale, chi è già avvezzo a queste colonne sonore sa già cosa aspettarsi: dall’hard rock anni ’80 di In the Mouth of Darkness e Porkchop Express (da Grosso guaio a Chinatown), al blues dalle tinte western di They Live e Santiago (da Vampires), passando per i mitici tocchi di synth di Assault on Predict 13 e Escape from New York (che nella seconda parte sfodera un esaltante arrangiamento in cui la chitarra elettrica affianca il lead) e Christine, ciò che stupisce è la freschezza e l’energia che le dinamiche dei pezzi riescono a trasmettere, nonostante siano passati parecchi anni dalla loro prima pubblicazione. Un elemento, questo, che potrà tornare a vantaggio di chi invece ancora non conosce la musica o il cinema di Carpenter e vuole approcciarsi per la prima volta al suo mondo.
Grazie alla Sacred Bones, etichetta specializzata in elettronica che aveva già pubblicato i due Lost Themes, John Carpenter Anthology (Movie Themes 1974 – 1998) risulta essere, alla fine dei conti, un’operazione commerciale curata e sensata che ha il pregio di gettare ancora più luce sulla figura di Carpenter nel XXI secolo come uno dei principali artefici dell’estetica anni ’80, in un periodo in cui il cineasta americano è riuscito a riciclarsi come rockstar grazie ai recenti tour nel suo paese ed oltre oceano. Un omaggio verso un Maestro del cinema che nel corso della sua carriera ha spesso raccolto meno di quanto avrebbe meritato e che solo in tempi recenti sta ottenendo il suo giusto riconoscimento verso un pubblico più ampio.