C’è un film straordinariamente poetico, originale e bizzarro che non avete avuto la possibilità di vedere al cinema. Questo perché Swiss Army Man, incosciente debutto al lungometraggio di Daniel Scheinert e Dan Kwan (accreditati come i Daniels), è un’opera tanto inusuale e selvaggiamente creativa da cogliere lo spettatore di sorpresa – e da convincere i distributori italiani che portarla sui nostri grandi schermi sarebbe stato un rischio eccessivo.
Fortunatamente però ci pensa Koch Media a portare in Italia questo folle film con l’incommensurabile Paul Dano e un Daniel Radcliffe completamente inedito, con un’uscita direct-to-home che approfitta del formato blu-ray per proporre un’interminabile sezione di extra; una vera miniera d’oro per espandere l’esperienza del film. In alternativa, trovate la pellicola in streaming su Prime Video.
UN FILM CHE NON DIMENTICHERETE
Swiss Army Man è diverso da qualsiasi altra cosa abbiate mai visto, ed è un piccolo miracolo. Lo è perché, pur facendo un ricorso continuo a peti, feci, erezioni, penetrazioni, masturbazione e travestitismo (tutti ingredienti che teoricamente potremmo trovare in un qualsiasi cinepanettone), è un’opera di una delicatezza e una profondità uniche.
Difficile affrontare la trama senza svelare momenti fondamentali – e che vogliamo scopriate direttamente durante la visione –, quindi ci accontentiamo di mettervi a parte del punto di partenza: Hank (Paul Dano), è un naufrago disperato che, stanco della vita solitaria su un’isola deserta, decide di impiccarsi. Proprio mentre sta per appendersi si accorge però che le onde hanno portato a riva qualcuno. Corre per aiutarlo, scoprendo presto che si tratta solo un cadavere (Daniel Radcliffe). Quel corpo morto, poi ribattezzato Manny, darà presto rumorosi segni di ‘vita’, e da lì inizierà un’amicizia che, grazie a un utilizzo della salma simile a quello di un coltellino svizzero multiuso (da qui il titolo), porterà Hank a trovare il coraggio e gli strumenti per scappare da quell’isolamento forzato.
PETI, MORTE, SOLITUDINE E POESIA
La pellicola dei Daniels esiste su due piani: mentre quello più eccentrico parla a ogni spettatore, raccontando un visionario percorso di avventura in cui non mancano richiami espliciti e insistiti alle più basse funzioni corporali, senza però mai sfociare nella volgarità gratuita; l’altro, non eccessivamente ermetico ma che, in virtù del suo forte valore simbolico, di sicuro richiede un’alfabetizzazione cinematografica, è incentrato invece sul senso dell’esistenza come esperienza collettiva.
Una delle idee più azzardate di Swiss Army Man è infatti quella di caricare di fortissimi significati allegorici il rapporto tra Hank e Manny: da una parte abbiamo la scelta del protagonista di aprirsi generosamente a chi ha lasciato la vita alle sue spalle, spiegandogli la meraviglia delle piccole esperienze quotidiane e lo slancio delle grandi emozioni, dall’altra abbiamo il racconto di come un confronto con la morte – e quindi con la nostra caducità – possa aiutare a trovare la determinazione per andare avanti e superare ostacoli apparentemente insormontabili.
Al contempo, scegliendo come fulcro un uomo che – forse a causa dell’isolamento – ha perso il contatto con la realtà, la sceneggiatura firmata dagli stessi Daniels si rivela una parabola cruda ma amorevole, divertente ma drammatica, sul disagio psichico.
IL TONO È IL VERO MIRACOLO DEL FILM
Swiss Army Man è un lavoro che si regge non solo su una confezione pressoché perfetta, ma anche sulle straordinarie interpretazioni di personaggi ai limiti dell’improponibile (Harry Potter non è mai stato così lontano). La fotografia dai colori gentili e vibrante di riverberi di Larkin Seiple contribuisce in modo sensibile al tono delicato della pellicola, mentre la commovente colonna sonora di Andy Hull e Robert McDowell, costruita esclusivamente su parti corali e scat singing, rappresenta il vero valore aggiunto del lungometraggio.
Vincitore del Directing Award al Sundance 2016, Swiss Army Man è un’opera surreale e intensissima, che trabocca di idee e ci ricorda la grandissima potenza della settima arte. Uno dei più bei film di quest’anno, e non è arrivato in sala.
La crudezza con cui vengono affrontati i tabù del corpo umano è stato uno degli elementi che più ha fatto parlare la stampa americana (“Il film in cui Harry Potter è un cadavere che scurreggia!”), ma la verità è che questi servono a contribuire in modo significativo al portentoso bilanciamento del film, riportandoci a una dimensione meccanicistica in cui gli uomini sono pezzi di carne ambulanti, di per sé vili e insignificanti, che però trovano un proprio significato nella consapevolezza e nell’accettazione della propria natura caduca. Una parabola dissacrante ma di una grazia inebriante, non dissimile dal celebre pensiero di Pascal sulla fragile potenza dell’uomo: «L’uomo non è che un giunco, il più fragile di tutta la natura; ma è un giunco pensante. Non occorre che l’universo intero si armi per annientarlo: un vapore, una goccia d’acqua è sufficiente per ucciderlo. Ma quand’anche l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe pur sempre più nobile di chi lo uccide, dal momento che egli sa di morire e il vantaggio che l’universo ha su di lui; l’universo non sa nulla. Tutta la nostra dignità sta dunque nel pensiero. È in virtù di esso che dobbiamo elevarci, e non nello spazio e nella durata che non sapremmo riempire. Lavoriamo dunque a ben pensare: ecco il principio della morale». Lavoriamo a esercitare la nostra umanità, con pensiero ed emozione.