Da’wah è la parola araba per indicare l’atto di invitare. Più in generale viene utilizzata per indicare l’azione di predicare una religione, in questo caso l’Islam. Contrariamente a quanto suggerito dai titoli sensazionalistici di certi giornali, che fanno leva sull’ignoranza e la paura del diverso, esiste un Islam – quello prevalente – secondo il quale la religione deve essere predicata con mitezza e il proselitismo condotto con gentilezza.
Da’wah – L’invito (2017), film scelto da Bernardo Bertolucci per la 12. Festa del Cinema di Roma, vuole per l’appunto offrire una chiave per liberarci dai preconcetti e aiutarci a capire meglio, con curiosità e tolleranza, la complessità di una religione che troppo spesso identifichiamo semplicisticamente e grossolanamente con il terrorismo e gli attentati.
ALL’INTERNO DI UN COLLEGIO ISLAMICO
Il regista Italo Spinelli ci invita ad abbandonare qualsiasi pregiudizio prima di varcare insieme a lui le soglie di un pondok pesantren indonesiano; un collegio islamico in cui studiano poco meno di 3000 ragazzi tra i 6 e i 18 anni. Dalwa, questo il nome della scuola, è come una nuova casa per questi giovani che scelgono di dedicarsi allo studio con la speranza, un giorno, di poter diventare Ustad – parola che indica non solo una guida religiosa ma, più in generale, un’autorità riconosciuta in materia di religione islamica.
Scopo del documentario è quello di mostrare una giornata tipica all’interno di uno di questi istituti di formazione le cui porte rimangono generalmente chiuse, scegliendo di concentrarsi sul momento che precede il rientro in famiglia degli studenti per la festa del Ramadan. In particolare, Spinelli decide di intervallare il racconto con interviste a quattro di questi studenti (Yazid, Rafli, Masduqui e Shofi) e ad alcuni membri delle loro famiglie. In questo modo, quello che si viene a costruire è un affresco corale della scuola e di alcuni dei suoi abitanti.
UNA REALTÀ DISTANTE MA VICINA
Quello che colpisce quando ci si addentra nella visione di Da’wah – L’invito è vedere come, seppur calati in un contesto religioso abbastanza rigido in una scuola dall’altra parte del mondo, i riferimenti culturali siano spesso condivisi. Così uno dei giovani parla dei Cavalieri dello Zodiaco, oppure lo si vede girovagare in mezzo al natura assorto mentre ascolta musica con le cuffie nelle orecchie. Per quanto scontato possa sembrare, sono questi piccoli dettagli che possono rendere lo spettatore occidentale più aperto al dialogo e incline alla comprensione, che possono mostrare come, nonostante le divergenze religiose, il mondo che condividiamo sia, in definitiva, lo stesso e la strada verso una convivenza pacifica a portata di mano.
Se il compito di Spinelli è, come abbiamo detto, quello di portarci per mano all’interno del pondok pesantren, è lecito dire che riesce perfettamente a centrare l’obiettivo. Il regista si fa, in questo caso, presenza invisibile riducendo al minimo il suo impatto sull’ambiente circostante, che rimane così totalmente incontaminato. Sebbene la narrazione sia lineare e non presenti particolari colpi d’ala, il modo in cui Da’wah – L’invito alterna con precisione la giornata scolastica fatta di sveglie all’alba, preghiere e lezioni, con spaccati di vita quotidiana e finestre sulle aspirazioni dei quattro giovani protagonisti mostra una certa disinvoltura da parte del regista nel gestire il proprio materiale. A questo, si aggiunge una fotografia degna di nota che regala inquadrature sempre pulite e talvolta plastiche.
Non stupisce, quindi, che Da’wah – L’invito sia stato scelto da Bertolucci per rispondere all’invito di Monda e della Fondazione Cinema per Roma. Con i suoi colori freddi ma non distaccati e tutti i suoi giovani studenti avvolti in lunghe tuniche bianche, il documentario cristallizza la speranza in un futuro di coesistenza e rispetto grazie alle sue immagini gentili e alle sagge parole dei suoi protagonisti.