Alcune volte accade che per parlare di un cineasta scomodiamo la danza: molti hanno utilizzato il termine “danzante” per descrivere la ritmata regia di Damien Chazelle, che animava La La Land anche quando la musica cessava. In Happy End, così come in tutti i suoi lavori precedenti, il regista austriaco Michael Haneke si trova invece al polo opposto di questo ragionamento: Haneke non muove la macchina per la storia, ma porta avanti costantemente una regia statica e distaccata per dare vita ai suoi drammi e alle sue inquietudini.
Happy End, pellicola in concorso all’ultimo Festival di Cannes, racconta la storia di una famiglia alto borghese che vive la sua quotidianità cercando di mantenere le apparenze a tutti i costi, nonostante un declino inevitabile.
Il regista nasconde significati cruciali e antitetici all’interno dei titoli dei suoi film: ricorderete che i suoi Funny Games non sono così divertenti, Il Nastro Bianco non riesce a essere simbolo di grande purezza e quando si dichiara di non avere Niente da Nascondere allora il dubbio sorge spontaneo. Esattamente allo stesso modo, ci troviamo davanti ad una felicità costruita ad hoc, ideale epilogo per ogni storia, persona, Paese (una famiglia che affronta le avversità insieme e un matrimonio) dietro la quale si intravede solo un’infrastruttura sociale votata al fallimento.
In Happy End, Haneke si abbandona, più che in passato, a provocazioni stilistiche che puntano a impegnare intellettualmente lo spettatore. La pellicola si apre e si chiude con sequenze interamente girate con un cellulare: i frammenti narrativi e stilistici sono spesso delle chiavi di volta per il cineasta, e il salto da un mezzo all’altro (da un linguaggio a un altro) esalta questa scelta registica in maniera esponenziale. L’occhio di Haneke è interamente rivolto verso di noi. E proprio per questo, Haneke non spiega assolutamente nulla.
Se in storie personali come La Pianista e Niente da Nascondere le motivazioni psicologiche erano più facilmente ricostruibili, ora, decidendo di frammentare il tempo con la presenza di molti personaggi, il pubblico è messo in una posizione di difficoltà ancora maggiore. La composizione corale della pellicola non cerca di risalire ai perché dei protagonisti della vicenda: non vengono chiariti né enunciati i temi centrali o quali scene siano collegate ad altre in termini di causa ed effetto, invitando lo spettatore a partecipare alla costruzione del senso.
I personaggi, non particolarmente comunicativi, oscillano sempre tra la depressione cronica e la psicosi (unica eccezione la tredicenne Eve, spiraglio ottimistico nella visione di Haneke); inoltre, tutti si raccontano più chiaramente con un video e con decine di messaggi su Facebook rispetto ai dialoghi interpersonali, ingessati in gabbie di falsità ed egoismo (nel cast ritroviamo due grandi interpreti di Amour, ovvero gli impeccabili Jean-Louis Trintignant e Isabelle Huppert).
La storia è ambientata a Calais ma la condizione degli immigrati attraversa il film senza essere mai approfondita: Haneke provoca e obbliga lo spettatore a porsi dei quesiti morali, eppure anche l’impressionante messa in scena non riesce a rappresentare del tutto le paure che l’autore austriaco vorrebbe suscitare.
Famoso per possedere uno sguardo feroce senza mostrare mai chiaramente la violenza, Haneke si allontana di pochi passi (è sempre nella stanza accanto) quando l’incubo prende piede. Se in passato questa scelta aveva portato alla grandezza, in Happy End la critica rimane rigida e a tratti didascalica a livello narrativo. E non parliamo di una fissità registica, che dialoga meravigliosamente con nuovi mezzi e linguaggi ma di una freddezza interna che non sconvolge come Haneke era riuscito a fare in passato. In sala dal 30 novembre, Happy End è distribuito da Cinema.