Nella primissima scena di Bamy, in un lungo piano sequenza, vediamo un ascensore mentre sale e scende una quarantina piani di un grattacielo: l’opera prima del giapponese Jun Tanaka, in concorso al 35° Torino Film Festival, sembra avvisarci fin da subito che stiamo entrando in altri “piani” – narrativi e stilistici – rispetto ai più classici codici cinematografici.
Un ombrello si aggira per Tokio
Su quell’ascensore si trova Fumiko Tashiro (Hiromi Nakazato) che vede un ombrello rosso volare fuori dal grattacielo. Mentre lascia l’edificio lo stesso ombrello si schianta davanti a lei per strada, proprio un attimo prima di incontrare una vecchia conoscenza, Ryota Saeki (Hironobu Yukinaga) suo ex-compagno di studi. Dopo un anno, quando i due sono fidanzati e hanno iniziato a vivere insieme, capiamo che Ryota per tutto questo tempo le ha nascosto un segreto: la sua capacità di vedere i fantasmi. Un potere sovrannaturale che con il tempo peggiora, influendo sul suo stato psicologico e mettendo a repentaglio sia il suo imminente matrimonio con Fumiko che il suo stesso lavoro come manovale in un magazzino. È in questo momento che Ryota incontra un’altra donna con la stessa abilità, Sae Kimura (Misaki Tsuge).
Il filo rosso del destino
Per provare a entrare dentro Bamy è utile leggersi quello che aveva in testa Jun Tanaka quando, con poco più di seimila dollari, decise di realizzare il film: “Il filo rosso del destino – un mito dell’Asia orientale sul legame fra amanti predestinati – non è che una maledizione. Non ci è concesso di far accadere i miracoli: solo loro ad accadere a noi, bruscamente e violentemente, guidati da un potere inesauribile a cui non si può sfuggire o resistere. Se perciò esiste, questo mitico filo è certamente qualcosa di mostruoso.” Se l’ombrello rosso è proprio il destino oggettivizzato che connette Fumiko e Ryota, la presenza di fantasmi che possono essere visti solo dal protagonista (quasi un eco rovesciato di It Follows) rappresenta l’orrore di questa predestinazione, la mancanza di controllo su loro stessi e sulla storia che stanno vivendo. Vite passate (i fantasmi) e vite presenti (gli amanti predestinati) si fondono in un unicum spettrale, una realtà che in quanto tale esiste non perché la vogliamo davvero ma perché è mossa da presenze inquietanti e totalizzanti. Dunque Bamy è sì storia di fantasmi, con tante ombre e oggetti animati che si muovono, ma è anche storia d’amore, in quanto lo stesso legame affettivo fra Fumiko e Ryota è uno spettro della loro stessa volontà di stare assieme.
Il fantasma è il cinema stesso
Che poi tutto l’impianto J-horror dentro il quale si muove Bamy sia in realtà funzionale alla sperimentazione visiva di Tanaka ci è chiaro quando cogliamo l’instabilità linguistica di tutta la pellicola. La fotografia desaturata e virata al nero che sgrana vistosamente, le musiche sinfoniche extradiegetiche troncate di colpo, le scene montate senza continuità di campo e controcampo, i jump cut, i buchi narrativi, i dialoghi assurdi e al limite del grottesco. Il vero fantasma per Tanaka è il cinema stesso, quasi a volere rendere l’estetica classica un ectoplasma vagante, uno spirito alla ricerca di un nuovo linguaggio per esprimersi. C’è anche di più: in questo sguardo alienato dalla normalità (in cui c’è anche lo spettro di Kurosawa, nei ritmi e nelle atmosfere) vediamo spesso i protagonisti che guardano in macchina indicando dei fantasmi che li fissano, come se Tanaka volesse rivelare spettri anche in mezzo al pubblico, fra gli spettatori stessi. Ecco, tutto questo esercizio di stile potrebbe anche essere scambiato per approssimazione o – peggio – per amatorialità, ma quello dell’esordiente giapponese è un gioco sottile di ribaltamenti e contaminazioni: un film sui fantasmi che diventa un film fantasma, il genere horror che inquina lo sguardo stesso della macchina da presa e una storia d’amore che non decolla mai in quanto prigioniera proprio di questa realtà incoerente e dissonante.
Dopotutto che l’autore giapponese abbia uno sguardo maturo e una padronanza visiva fuori dal comune lo capiamo alla fine, con un’ inquadratura che vale almeno tutto il film, quella di una pioggia di ombrelli rossi sopra la città di Tokio. Immagine questa si, estetica pura, poetica e pittorica, a suo modo potentissima. Le cartucce dunque il ragazzo ce l’ha sempre avute, semplicemente sembra non le abbia volute usare. O meglio: le ha usate come meno ce l’aspettavamo. Anche per questa ragione – soprattutto per questa ragione – Jun Tanaka andrà tenuto d’occhio, da qui in poi, con moltissima attenzione.