C’erano tante buone premesse che facevano di Don’t Forget me un favorito per strappare qualche premio importante al Torino Film Festival per il concorso principale. Ma il trionfo nella maggior parte delle categorie in gara (miglior film, miglior attore e miglior attrice) rivela che l’opera prima del regista israeliano Ram Nehari, oltre che essere stata apprezzatissima dal pubblico del Festival, ha colpito in profondità la giuria presieduta da Pablo Larrain.
Fra follia e il suono di tuba
Un motivo di questo successo sta forse a nella natura eccentrica e stralunata della storia raccontata da Don’t Forget me: da una parte una ragazza, Tom (Moon Shavit), ricoverata in una struttura per disturbi alimentari, convinta che il cibo, il sesso e in generale la vita possa inquinare e contaminare il proprio corpo, rincorrendo un’autodistruzione che difende con muri psicologici invalicabili. Dall’altra Neil (Nitai Gvirtz), suonatore di tuba, nato in Olanda ma israeliano di adozione, anche lui strambo quanto basta e confinato in un ostello per malati mentali. I due, manco a dirlo, s’incontrano casualmente, fuggono dalle rispettive strutture sanitarie e vagano per una Tel Aviv surreale, spietata e nichilista.
Devianza e normalità, individui e società
Ram Nehari – classe 1970 e con alle spalle un bel po’ di esperienze in fiction televisive – ha già lavorato per dei seminari sul cinema dedicati ai malati mentali e decide piazzare una tematica così delicata dentro l’impianto di una commedia dolceamara, dove psicosi e grottesco vanno a braccetto fino alla fine. C’è una bella idea di introduzione ai personaggi che faranno capolino nel film, ci sono due attori molti bravi e credibili che mostrano una totale immersione nelle loro patologie (per interpretare la ragazza anoressica Moon Shavit ha attinto a trascorsi personali) e c’è in generale una critica abbastanza esplicita alla società israeliana che Nehari ridisegna come un intreccio di ingiustizie normalizzate, sia che esse siano rappresentate dall’amico ricco di Neil (Eilam Wolman), sia che esse prendano forma nei diktat familiari di cui è vittima Tom, alle prese con gli estremismi vegani della madre (Rona Lipaz-Michael). Alla fine Israele è descritta come una comunità elitaria, isolata e autoreferenziale che espelle i corpi e le esperienze di vita di chi in qualche modo è “fuori sintonia”, una società anoressica che fa eco alla stessa inappetenza di Tom al cibo e alle calorie.
Siamo dunque dalla parti di una Pazza gioia in salsa yiddish, dove ironia e beffa filtrano il dramma in risate e situazioni grottesche. Un film atipicamente “europeo” per la cinematografia israeliana sempre attenta a drammatizzare e ad approfondire senza mai lasciare troppo alla reattività della storia. Al contrario Don’t Forget me non punta a complicare, ma a ridurre, non si concentra sul dramma ma lo dribbla con un sorriso, non suggerisce pesantezza ma gioca abilmente a rendere tutto più leggero. Persino tematiche “tabù” come quella dello Shoah e del crescente razzismo nella società israeliana sono toccate con sarcasmo e derisione. Senza troppi virtuosismi registici o slanci narrativi, Nehari cavalca tutta l’emotività dei personaggi, scoprendo le carte di una storia d’amore improbabile e bizzarra e – soprattutto – restituendo un inno al diritto di vivere la propria diversità.