Proviamo a dirlo senza girarci troppo attorno: l’ultima sequenza di Un Sogno Chiamato Florida – The Florida Project, presentato in anteprima al Torino Film Festival 2017 come film di chiusura della kermesse, rappresenta forse una delle sequenze di immagini più toccanti ed emozionanti della stagione cinematografica che sta per concludersi. Il nuovo film di Sean Baker, girato con appena due milioni di budget (per un autore che era abituato a usare 200mila dollari a film) segna – a due anni di distanza da Tangerine – il ritorno di uno degli autori più indipendenti e talentuosi in circolazione, che questa volta decide di raccontare i corpi anomali della società americana utilizzando come filtro narrativo lo sguardo derisorio e fiabesco dei bambini.
Le vite del Magic Castle
E infatti sembra quasi una favola (anti)disneyana la vita Moonee (Brooklynn Prince) che ha sei anni e vive con sua madre Halley (Bria Vinaite) nel Magic Castle, un motel a Kissimmee (Florida), gestito da Bobby (Willem Dafoe) e che ospita per lo più famiglie in difficoltà economiche. Durante l’estate Moonee passa le sue giornate con Scooty (Christopher Rivera) e Jancey (Valeria Cotto), ragazzini della sua età e che abitano nello stesso motel o in quello vicino: litigano con Bobby, gironzolano per strada, esplorano le zone adiacenti, con nessun giocattolo fra le mani ma con molta irriverenza per tutto ciò che li circonda. Nel frattempo Halley è disoccupata e per pagare l’affitto settimanale della stanza cerca di arrangiarsi tra sotterfugi e piccole truffe. Nonostante le difficoltà quotidiane la vita scorre al Magic Castle in modo relativamente tranquillo, finché un incidente causato da Mooney e la sua piccola banda finirà per incrinare i rapporti di Halley con la madre di Scooty, Ashley (Mela Murder). Da qui in poi la situazione sarà destinata a precipitare, soprattutto perché Halley si troverà sempre più a corto di soldi.
La favola…
Sean Baker ci porta dunque fin dentro un’America marginale e marginalizzata, una sacca di disagio economico che tira avanti alla giornata senza troppe prospettive di vita. Eppure il dramma sociale di Magic Castle e dei suoi residenti – che cozza inevitabilmente con gli sfarzosi castelli ‘di plastica’ della vicina Disney World – è filtrato fin dalle primissime scene dallo sguardo ‘incantato’ dei bambini e dalla fotografia di Alexis Zabé virata cromaticamente (e simbolicamente) ai colori pastello. Attraverso questa quotidianità tutto diventa più digeribile e, anzi, perfino divertente. Dopotutto quelli di Un Sogno Chiamato Florida – The Florida Project sono bambini “terribili”: dicono parolacce, sputano sulle auto e sugli altri bambini, chiedono soldi ai passanti per strada per comprare gelati, sabotano l’impianto elettrico del Motel e riescono perfino a dare fuoco a un intero complesso di case abbandonate. Sono “piccole pesti” doppiamente capaci sia di far ridere attraverso una spudorata maleducazione, sia di far sospendere ogni giudizio morale sulla propria condotta. Perché nella loro spassosissima irrequietezza e irriverenza, Moonee, Scooty e Jancey restano dei bambini e conservano quei tratti di innocenza propri della loro età. La loro, sembra dirci Baker, è una sfrontatezza quasi necessaria che controbilancia loro giovanissima e vorace voglia di giocare alla vita.
…e il dramma
La felice anarchia dei Moonee e dei suoi amici fa il paio con la sconsideratezza della madre Halley, incapace da parte sua di gestire la propria situazione economica e di trovare quella stabilità necessaria per lei e sua figlia. È che qui che Un Sogno Chiamato Florida – Florida Project assume tinte meno dissacranti e più drammatiche, con Baker che è bravissimo a evitare anche in questo caso un giudizio morale o, al contrario, una scontata scivolata nella denuncia sociale. Baker si limita a seguire Bira Vinaite con la macchina a mano e con lo stesso distacco con cui racconta le vicissitudini dei bambini, attraverso uno sguardo in cui il mondo dell’età adulta e quello dell’infanzia si confondono meravigliosamente. E se il motel di Magic Castle è un microcosmo sociale, quasi un’America dentro un’America, è Bobby il pezzo che tiene in equilibrio favola e dramma, sogno e realtà, gioco e oneri. Bobby è l’unico personaggio che si ritiene responsabile per gli altri, non esente lui stesso da problemi personali e gerarchie a cui deve rispondere, ma allo stesso tempo è capace di vestire i panni di un gestore “buono”, diviso fra regole che obbliga a far rispettare ed empatia per le difficoltà umane a cui è costretto ad assistere ogni giorno. Qua è bravissimo William Dafoe a lavorare per sottrazione, sia quando veste i panni del brontolone contro le malefatte dei ragazzini sia quando è capace di intervenire per proteggerli. Il Bobby di The Florida Project è uno dei personaggi più riusciti e meglio interpretati della sua intera carriera, nonostante appaia a malapena sullo schermo e non abbia grandissime scene a lui riservate.
E poi appunto, ad accentuare la parabola che dalla favola ci riporta alla realtà – e al suo inferno sociale – arriva quel finale dissonante, per formato e narrazione. Se da una parte a chiudere un film girato in 35mm è l’unico spezzone girato in digitale (con un iPhone che riprende, senza permessi, Disney World) dall’altra è la sua incongruenza narrativa a rivelare il commovente intento di Baker di salvare quella stessa infanzia colpita e tradita, di proteggerla, di farle vivere quel sogno mai realizzato. Uno slancio disarmonico, quasi onirico, che arriva bruscamente, come se Baker volesse ridisegnare un lieto fine da favola per bambini ma senza crederci o (farcelo credere) troppo. Un omaggio disperato a quella stessa disperazione, quella di un’America ai margini che, fiabesca, non lo sarà mai.