Sembra che dopo la release di Dark, esordio produttivo tedesco di Netflix che sin dai primi teaser ha suscitato una crescente attenzione da parte del pubblico, uno degli esercizi preferiti sul web si quello di trovare le somiglianze dello show con altre serie o film, o, al contrario, quello di difenderne la peculiare originalità.
NO, NON È “UNO STRANGER THINGS PIÙ OSCURO”
Questo perché la storia ideata da Baran bo Odar e Jantje Friese, nel seguire un suo percorso caratteristico e distinguibile, ripercorre un’ampia serie di topos che negli ultimi anni hanno caratterizzato la narrativa multimediale del mistero. «Uno Stranger Things più dark», si sono affrettati a sentenziare alcuni (con un’etichetta che ha fatto da ottimo traino promozionale al prodotto), concentrandosi su elementi come la sparizione di un bambino, gli anni ’80 e le biciclette. È ovvio però che questo tipo di semplificazione può esser concesso a qualche sbrigativo commento su Facebook, ma sarebbe imperdonabile qualora venisse riproposto nella sua pigrizia intellettuale in una sede di approfondimento critico propriamente detto.
Il punto di partenza della sceneggiatura – i cui sviluppi lasciamo al piacere della visione – è, per l’appunto, la scomparsa di bambini da una cittadina montana in Germania, in cui i complessi legami familiari, delle grotte minacciose, una centrale nucleare, appunti indecifrabili, pericolosi esperimenti e strani artefatti contribuiscono a creare un contesto di mistero e sospetto che permea come una pece viscosa l’atmosfera claustrofobica della location. Se nel progredire degli episodi il tessuto narrativo – sempre labirintico – sarà progressivamente meno oscuro, quel che sarà chiaro sin dall’inizio è che i ‘salti temporali’ (intesi tanto come forzatura delle leggi dell’universo quanto come espediente narrativo) avranno un peso preponderante nella dinamica della messinscena.
LA MIGLIOR PRODUZIONE EUROPEA DI NETFLIX
Se Dark non è solo uno Stranger Things per adulti, allora che cos’è? Prima di tutto è la prima serie prodotta dal web service di Los Gatos sul mercato tedesco, e se di certo è costruita su un insieme di rimandi che trovino terreno fertile nei gusti degli abbonati, si distingue comunque per una maggiore originalità: lo spagnolo Le Ragazze del Centralino, pur apprezzatissimo, rimane un prodotto piuttosto standard, la francese Marseille rimanda direttamente a un concept à la House of Cards e il nostrano Suburra suscita immediati paragoni con Gomorra. A prescindere da un giudizio di merito sulle suddette serie, Dark ha il pregio di avere sì un sapore familiare, ma di risultare più difficilmente catalogabile.
LA STRADA A RITROSO VERSO LOST
Questo perché, molto saggiamente, gli autori hanno pescato a un bacino di idee piuttosto ampio che, volendo trovare un comune denominatore televisivo (ci risparmieremo quindi le citazioni di Donnie Darko o delle atmosfere alla Fincher o alla Floria Sigismondi), rimanda alla tanto amata e controversa Lost. Per amor di chiarezza è bene chiarirlo subito: non stiamo sostenendo che Dark sia copiata da Lost, ma che è direttamente figlia di un filone che ha avuto proprio lì il suo inizio.
Le tematiche del ‘viaggio dimensionale’ e degli esperimenti fantascientifici sono infatti ricorrenti nell’immaginario di J.J. Abrams, che le ha proposte prima in Lost e poi nel successivo Fringe, mentre sarà un altro co-creatore della serie ABC, Damon Lindelof, a riproporre in seguito la tematica di sparizioni ‘soprannaturali’ in The Leftovers. C’è poi da citare la serie con cui proprio la ABC provò a bissare il successo di Lost riproponendone le dinamiche mistery, FlashForward, che viene citata in Dark in modo a dir poco esplicito; mentre è inevitabile il paragone con un’altra serie Netflix che venne prontamente e fallacemente paragonata a Stranger Things, e cioè il thriller-dramma metafisico The OA. Se effettivamente qualche elemento del popolarissimo titolo dei Duffer Brothers è presente in Dark, è però un altro lo show il cui tono ritroviamo riproposto quasi inalterato nella produzione tedesca, e cioè il nebbioso e oscuro Les Revenants (il cui remake americano, The Returned, porta non a caso la firma di Carlton Cuse, showrunner proprio di Lost).
Se poi volessimo andare molto più indietro nel tempo e ritrovare un – pur diversissimo – mix di ambientazione silvestre, toni cupi, sparizioni, legami familiari e implicazioni metafisiche, il pensiero non potrebbe che andare a Twin Peaks.
UNA REALIZZAZIONE IMPECCABILE, MA PER IL FUTURO SERVE PIÙ EMOZIONE
Sono quindi molte le anime che convivono in Dark, ma ridurne l’essenza a un mero collage di altri prodotti sarebbe ingeneroso, giacché il debutto tedesco di Netflix coincide anche con quella che fino ad ora è la miglior produzione europea del web service. Se infatti lo script propone soluzioni forse troppo erratiche per il 2017 (di acqua sotto i ponti dalla caotica writers’ room di Lost ne è passata tanta) e inizialmente fallisce nel creare una vera connessione emotiva con i personaggi, l’ambizioso disegno narrativo di Baran bo Odar e Jantje Friese regala un’esperienza narrativa elegante e appagante, che è forte anche di un ottimo cast (e un ottimo casting) e, soprattutto, di una realizzazione tecnica di grandissima suggestione.
La mano registica di Baran bo Odar è sicura e talentuosa, e nonostante l’editing non sempre tenga incollati allo schermo (soprattutto se in sala di montaggio c’è Denis Bachter), è proprio con nell’episodio Passato e Presente (con Bachter a montare) che troviamo un magnifico split screen che stilizza con originalità i parallelismi narrativi dello script. I costumi di Anette Guther – ruffiani e citazionisti il giusto – contribuiscono in modo decisivo all’identità della serie, così come le scenografie sempre perfette di Udo Kramer. A dare una marcia in più a Dark è però la fotografia di Nikolaus Summerer (già al fianco degli showrunner in The Silence e Who Am I), che si distingue dalla tendenza imperante a ridurre il contrasto assecondando la povertà della gamma dinamica digitale e, comprimendo i neri e spingendo le alte luci, va in direzione opposta e crea scenari oscuri e desaturati, il cui magnifico espressionismo incarna la quintessenza della serie.
In conclusione Dark è un prodotto la cui qualità è immediatamente percepibile e che, nonostante nei primissimi episodi fatichi a calamitare l’attenzione del pubblico, quando vi riesce lo catapulta in una narrazione complessa e coinvolgente (della quale, ancora una volta, non spoileriamo nulla), che di certo offre infinite possibilità di sviluppo future. Potremmo dar peso a quegli elementi che ancora non funzionano e dire che si tratta di uno show ben pensato ma senza una vera identità, ma preferiamo di gran lunga vedere il bicchiere mezzo pieno, dato che Netflix ha dimostrato di poter produrre in Germania un prodotto sul cui appeal internazionale non vi è alcun dubbio, e che la rinascita della serialità del Vecchio Continente passa anche da operazioni come questa.