NELLA SEGUENTE RECENSIONE NON TROVERETE NESSUNO SPOILER NÉ ALCUNA INFORMAZIONE SULLA TRAMA DEL FILM, QUINDI POTETE LEGGERE LIBERAMENTE SENZA LA PAURA DI ROVINARVI LA VISIONE.
Star Wars: Gli Ultimi Jedi è una doccia fredda. Non perché non sia un bel film – di fatto è il migliore della saga, dopo quelli della trilogia classica – ma perché il climax che Abrams costruisce per tutto il suo Il Risveglio della Forza, fino al cliffhanger finale, viene quasi ignorato da un film piuttosto bizzarro che, pur risultando avvincente, dei toni epici quasi non sa che farsene, e che vuole riscrivere a tutti i costi (riuscendoci) l’identità stessa di Guerre Stellari.
JOHNSON HA LA SUA VISIONE, E CALPESTA QUELLA DI ABRAMS
Quando J.J. Abrams fu incaricato da Kathleen Kennedy (l’onnipotente presidentessa della Lucasfilm nonché brand manager del franchise cinematografico di Star Wars) di rilanciare la saga dei Jedi, le regole d’ingaggio erano chiare: fare un soft reboot che si discostasse il più possibile dai controversi prequel e riproponesse invece l’identità della trilogia classica: un’avventura di frontiera tra misticismo e personaggi in cerca di riscatto.
Se il pur riuscitissimo film del 2015, decisamente somigliante a Star Wars: A New Hope, venne accusato di scarsa originalità, questa volta il nuovo regista e sceneggiatore Rian Johnson (Brick – Dose Mortale, Looper) vira bruscamente in tutt’altra direzione, e riuscendo a proporre un coraggioso turbinio di idee innovative e inaspettate, sacrifica sull’altare della creatività la visione di Abrams, che viene cestinata quasi brutalmente, con molti dei rimandi a The Force Awakens che vengono inseriti forzatamente nello script per poi essere rapidamente vanificati o superati.
La freschezza della sceneggiatura di Johnson (una sceneggiatura comunque imperfetta, con molti buchi e contraddizioni) parte da una premessa fondamentale: i primi Guerre Stellari furono dei racconti selvaggiamente creativi e pericolosamente kitsch, pertanto per rimanere fedeli allo spirito della saga non bisogna aver paura di sfociare nel bizzarro. Star Wars: The Last Jedi è a tutti gli effetti un film pieno di trovate eccentriche e stupefacenti, e la cui erraticità sfocia finanche nel caotico. Non mancano i riferimenti a Guerre Stellari: L’Impero Colpisce Ancora, certo, ma sono ben mimetizzati in una storia che si concede qualche momento di fan service, non ha paura di risultare anche divertente o di fare un paio di strizzate d’occhio animaliste, regala momenti di eroismo inaspettati (BB-8 è un duro!) ma la cui identità profonda si muove in tutt’altra direzione. Una direzione assai ambiziosa ma non immediatamente evidente.
UN UNIVERSO MAI COSÌ STILIZZATO, UNO SCRIPT FUORI CONTROLLO
Lo script mette tantissima carne al fuoco ma le pur abbondanti due ore e mezza di metraggio non bastano a esaurire ogni spunto. Alcune delle soluzioni scelte da Johnson sono tranchant ai limiti del proponibile, qualche spiegone poteva esser gestito meglio e non tutti i personaggi hanno un arco narrativo o una caratterizzazione soddisfacente (Benicio Del Toro che fa una sorta di Tom Waits con dei terribili difetti di pronuncia è semplicemente sconcertante, mentre è molto più convincente il personaggio di Laura Dern). Con quasi ognuno di questi piccoli o grandi problemi si può venire a patto facilmente, ma a farsi sentire alla fine dei 152 minuti è una certa assenza di emozione: del ‘calore’ che aveva animato il The Force Awakens di Abrams quasi non c’è traccia, e la colpa è principalmente del montaggio e di una colonna sonora mai così deludente.
Rian Johnson, che soprattutto nel girare le battaglie spaziali è straordinario, sceglie di farsi affiancare da due suoi collaboratori rodati, preferendoli a nomi ben più blasonati: al montaggio troviamo infatti Bob Ducsay (Looper, Tartarughe Ninja: Fuori dall’Ombra, San Andreas, G.I. Joe – La Nascita dei Cobra) e alla fotografia Steve Yedlin (Brick, Looper, San Andreas). Se Yedlin si supera ricercando un pittoricismo che rende Star Wars: Gli Ultimi Jedi uno dei film esteticamente più affascinanti della saga, Ducsay, pur riuscendo a rendere scorrevoli le due ore e trentadue del film, taglia sempre di netto i momenti salienti della narrazione, creando un tessuto di vicende parallele tra le quali veniamo bruscamente trascinanti con passaggi ‘a freddo’ e anticlimatici. Fortunatamente ci pensa un montaggio sonoro da Oscar a togliere il fiato (e il suono) in un paio di momenti fondamentali.
Degne di menzione sono le scenografie di Rick Heinrichs (Il Mistero di Sleepy Hollow, Pirati dei Caraibi), che opta per degli accostamenti dalla forza quasi espressionista e costruisce un codice cromatico che si muove continuamente sulle frequenze del bianco, del nero e del rosso, mentre il comparto dei VFX ci regala uno Snoke dal volto fantastico (la stessa cosa non si può dire della camminata), delle esplosioni spaziali mai così vere e tangibili e un paio di sorprese che risulteranno decisamente ben confezionate.
La squadra messa insieme e guidata da Johnson riesce comunque a portare a casa il risultato, creando un’opera che ha una sua identità molto specifica e distinguibile nel longevo franchise ideato da Lucas. Una visione che dev’esse piaciuta molto a Kathleen Kennedy, dato che a Johnson è stato concesso il privilegio di diventare direttore creativo e regista di una trilogia di Star Wars tutta nuova (e slegata dalle vicende degli Skywalker) che vedremo nei cinema a partire dal 2021.
LE MUSICHE DI WILLIAMS SONO UNA COCENTE DELUSIONE
Chi non ama John Williams? Nella sua lunga e prestigiosa carriera ha scritto la storia del cinema del ‘900 più di ogni altro compositore, e senza la sua mente geniale quello di Guerre Stellari non sarebbe mai stato un racconto così emozionante ed epico.
Il problema è che, con le sue 85 primavere, Williams sembra aver perso l’entusiasmo artistico che lo ha sempre caratterizzato, e se in Star Wars: Il Risveglio della Forza non aveva brillato per incisività, regalandoci un tema delicato ma dagli echi western e avventurosi per Rey e un archetipica quanto forse troppo essenziale frase di cinque note per Kylo Ren, stavolta il leggendario compositore statunitense offre la sua prova più svogliata di sempre, limitandosi a citare qui e lì i temi classici senza proporre nessuna nuova idea.
Risentire l’adagio del tema di Luke e Leia o il crescendo di The Light Of The Force fa sempre venire la pelle d’oca, certo, ma ormai le partiture di Williams sembrano solo un affollato gioco di rimandi verso se stesso e – come sempre – verso il tardo romanticismo e i maestri russi del primo novecento. È vero che il vocabolario sonoro costruito negli anni per la saga di George Lucas non era completamente farina del suo sacco (si è discusso a lungo di quanto sia stato debitore delle colonne sonore di Korngold, del Concerto per Violino in Re Maggiore Op.35 di Čajkovskij, della Marcia Funebre di Chopin, de I Pianeti di Holst, della Sagra della Primavera di Stravinskij e della Sinfonia del Nuovo Mondo di Dvořák, solo per citare qualche titolo), ma ormai gli slanci melodici che costruivano un riconoscibilissimo contrasto con quanto messo in scena sullo schermo cedono il posto a un commento tautologico e senza guizzi. E per un franchise che ha sempre toccato le corde dell’anima grazie alle partiture orchestrali, diventa un problema tutt’altro che trascurabile.
PERCHÉ GLI ULTIMI JEDI È COMUNQUE UN GRANDE FILM GENERAZIONALE
Se ci sono così tante cose che, prese singolarmente, non funzionano a dovere, perché allora ci spingiamo a sostenere che Star Wars: The Last Jedi è un film ambizioso, profondo e decisamente riuscito? Quel che conferisce alla pellicola di Johnson un posto d’onore nella saga degli Skywalker è la sua capacità di allontanarsi da quella che (in modo a dir poco opinabile) lo stesso George Lucas aveva descritto come una ‘soap opera’ spaziale, riprendendone le fondamentali tematiche della caduta, della redenzione e dello scontro tra il bene e il male ma riadattandole a una mutata temperie culturale e sociale.
Il mondo di oggi è profondamente diverso da quello del 1977, e nonostante certe storie abbiano un valore archetipico universale (non a caso sono molti i punti di contatto tra Guerre Stellari e, per fare un esempio, la tragedia Sofoclea), un franchise arrivato alla sua ottava puntata ha bisogno di un sano rinnovamento. Rian Johnson trova quindi un terreno fertile nella realtà contemporanea, raccontando un mondo in cui bene e male sono concetti più che mai relativi, in cui le antiche religioni creano pericolosi fanatismi e in cui i giovani non hanno più maestri nei quali riconoscersi.
A ben vedere, è proprio tutta qui la parabola narrativa di Gli Ultimi Jedi: nel parlare alle giovani generazioni cui dei padri egoisti e miopi hanno lasciato un mondo ormai fuori controllo, che richiede nuovi paradigmi per affrontare nuove sfide, uno sforzo di recidere il cordone ombelicale col passato per rivendicare un proprio ruolo attivo nella realtà.
Tagliare i ponti con ciò che è stato, per Johnson, significa anche avere il coraggio di fare qualcosa di completamente diverso tanto dalla trilogia classica quanto dai prequel, radendo al suolo il tempio e ponendo le basi per un nuovo Guerre Stellari, che lascerà qualche perplessità nei vecchi fan che si erano emozionati per il ritorno dello Jedi ma che potrà parlare alle nuove generazioni, diventando la loro storia, la loro epica. Non sappiamo bene dove potrà andare a parare J. J. Abrams con il suo episodio IX, dopo che The Last Jedi ha rimescolato le carte in tavola, ma ci sono tutte le premesse per dire (con un po’ di nostalgica rassegnazione) che non sarà “la solita storia”.