Ci sono quei film che urlano “festival del cinema” da chilometri di distanza. Quei film con una locandina sofisticata, un’immagine fuori fuoco, una composizione minimalista, qualcosa che suggerisca esclusività e attragga fatalmente quel tipo di spettatori affamati di cinema impegnato. Sono quei film che preferibilmente segnano l’esordio di un regista, quei film dal titolo originale spesso impronunciabile, quei film che già sai saranno inesorabilmente lenti ma che, talvolta, sapranno anche regalarti scene che non ti aspetti e inquadrature che con forza decidono di rimanerti impresse nella mente. Godless (Bezbog, in originale), ora disponibile in streaming gratuito sulle piattaforme del festival online del cinema europeo ArteKino, è uno di questi. Vincitore del Pardo d’Oro e del Pardo per la Miglior Interpretazione Femminile (nonché di un paio di premi collaterali) allo scorso Festival del Cinema di Locarno, Godless segna il ritorno – o più verosimilmente il debutto – sulle scene della regista bulgara Ralitza Petrova di cui all’attivo si contavano solamente due cortometraggi, Rotten Apple (2006) e By the Grace of God (2009).
Incastonato nel freddo e austero paesaggio invernale di Vratsa, città bulgara ai piedi dei Monti Balcani, Godless è lo specchio di una nazione tuttora devastata dalla sua stessa storia, dall’antica conquista ottomana che ancora rinfocola la diffidenza verso i Turchi ai rigori e alle repressioni del passato regime comunista. Quello che ci viene presentato è quindi il ritratto di una società ferita, dominata da disaffezione e corruzione, in cui le relazioni umane dimenticano il concetto di pietà e si arroccano dietro maschere di indifferenza. In questo paesaggio arido si muove Gana (Irena Ivanova, al suo primo film), un’infermiera a domicilio che si occupa di anziani che, tra medicine, esercizi di riabilitazione e cambi di lenzuola, ruba le carte di identità dei suoi pazienti per poi rivenderle al mercato nero. Come complice ha il suo fidanzato, con il quale porta avanti una relazione in cui l’uso smodato di morfina si offre come unico sostituto alla mancanza di sesso.
Compresso in un formato 4:3 e costellato da una lunga serie di primissimi piani, l’esperimento intimista di Petrova costringe lo spettatore in una gabbia claustrofobica i cui colori desaturati e le luci tenui ma fredde sottolineano il carattere malinconico e tragico dell’intera pellicola. A questi tocchi iperrealisti fanno da controcanto campi lunghi in cui la figura umana, riducendosi in dimensione, perde anche di importanza, fino quasi a sparire nel paesaggio circostante azzerando qualsiasi soggettività come a volerci ricordare della nostra finitezza e del nostro essere uomini e donne tra tanti, persino in un mondo senza dio.
Ciò che Godless ha più a cuore, in un tripudio di inquadrature minimaliste dai punti di vista talvolta inusuali, è la crescita umana di Gana, donna stretta tra le tenaglie di un trauma infantile e da una vita priva di affetti sinceri. È però l’incontro con uno dei suoi pazienti, Yoan (Ivan Nalbantov), direttore ormai in pensione di un coro, che offre a Gana la possibilità, o quantomeno la speranza, di costruire un rapporto vero. Allo stesso tempo, è l’incontro con la musica di Yoan, con l’insieme di voci che intonano canzoni religiose all’interno di un capannone dismesso reinventato a campo da basket, che mostra a Gana come la bellezza sia qualcosa di tangibile, un qualcosa che possa sopravvivere nonostante la miseria.
Così come Petrova si sofferma instancabile a scandagliare il volto inespressivo di Gana, allo stesso modo non perde l’occasione di consegnarci il ritratto di una città che sembra deserta, dagli edifici che si ergono freddi e dagli spazi intrisi di squallore all’interno delle case degli anziani malati. Se la missione documentaria della regista e la sua aspirazione a innalzare la sua storia ad allegoria risultano sufficientemente chiare dopo le prime scene, quello che fatica a ingranare e che inevitabilmente soffre dell’importanza prepotentemente data alla bellezza dell’immagine evocativa è la trama del film stesso. Non è tanto la lentezza di cui Godless ci informa già dopo i primi minuti a risultare problematica, quanto piuttosto la mancata messa a fuoco su una storia che riesca a coinvolgere maggiormente lo spettatore, specie quando l’empatia con la protagonista è negata dalla scrittura stessa del personaggio. Così, anche le scene che risultano più sature di pathos e che dovrebbero condurci per mano verso una catarsi rischiano di passarci davanti come ulteriori piccoli gioielli di fotografia e regia ma nulla più.