Per anni apparentemente dimenticato dalla critica e per questo motivo scarsamente conosciuto dal pubblico, Max Blecher (1909 – 1938) è stato un poeta e scrittore rumeno vissuto per neanche trent’anni nella prima metà del secolo scorso. Riscoperto a un secolo dalla nascita e finalmente tradotto in diverse lingue europee, Blecher, sia per stile che contenuti, è stato presto paragonato a scrittori del calibro di Franz Kafka, Bruno Schulz o Marcel Proust. Tra le sue opere si contano Avvenimenti nell’irrealtà immediata (Întâmplări în irealitate imediată, 1936 – tradotto in italiano per Keller, 2012), Inimi cicatrizate (1937, tradotto in inglese come Scarred Hearts) e Vizuina luminată: Jurnal de sanatoriu (pubblicato in parte postumo nel 1947 e completo nel 1971). Ѐ su questi due ultimi titoli che Radu Jude si è basato per costruire il suo ultimo film, Scarred Hearts (Inimi cicatrizate, 2016), in concorso allo scorso Festival del Cinema di Locarno dove ha vinto il premio speciale della giuria e ora in concorso ad ArteKino, il festival online del cinema europeo organizzato da Arte TV e Festival Scope.
Appartenente alla scuola del noul val românesc, da noi conosciuta come ‘nuovo cinema rumeno’, Radu Jude è stato assistente alla regia di Cristi Puiu durante le riprese di La morte del signor Lazarescu (Moartea domnului Lazarescu, 2005), film che viene generalmente indicato come l’opera che ha dato il via all’emergente movimento realista rumeno. Se si può dire che, con i suoi primi lavori, Jude abbia abbracciato i parametri stilistici del movimento, è con il film storico Aferim! (2015), che il regista rumeno sembra aver imboccato una strada nuova che si allontana dall’osservazione attenta della realtà contemporanea per portarne a galla i nodi critici ma si dedica invece alla riscoperta del passato recente del paese per indagarne le contraddizioni e i problemi più intimi. Ѐ in questo modo che Scarred Hearts si cala nella Romania degli anni ‘30, un periodo considerato alla stregua di un’età dell’oro per la società rumena, quando l’antisemitismo prendeva sempre più piede ma veniva accolto con bonaria tolleranza e la Romania si avvicinava sempre di più alla Germania nazista.
Lasciando in secondo piano il quadro storico più ampio, Scarred Hearts si concentra sulla vicenda umana di Emanuel (Lucian Teodor Rus), giovane ebreo colpito da tubercolosi spinale e per questo ricoverato per lungo tempo in un sanatorio. Qua entrerà sempre più a far parte del tessuto sociale del luogo, un mondo in miniatura in cui gravitano sia medici che giovani pazienti, i quali cercano il più possibile di abbandonarsi alla vita per fuggire l’incombenza della morte. Le stanze del sanatorio si trasformano quindi in circoli culturali dove si discute di politica e di letteratura e si intrecciano relazioni amorose che trovano il loro apice in scene di sesso, sì dolorose ma al contempo quasi comiche, che ci ricordano come può esserci desiderio persino nella malattia.
Bloccato a letto e impossibilitato nei movimenti a causa di un busto in gesso che gli abbraccia l’intero petto, Emanuel si lega sentimentalmente a due ragazze che incarnano poli opposti di attrazione. Se Solange (Ivana Mladenovic) è una ex paziente del sanatorio che ormai, completamente guarita, riesce difficilmente a prendere in considerazione l’idea di legarsi a qualcuno e perdere quindi la propria libertà, Isa (Ilinca Harnut) è, come Emanuel, costretta a letto ma limitata a tal punto nei movimenti da aver bisogno di due specchi ai lati della testa per potersi guardare intorno. Allo stesso tempo, come Solange avrebbe la possibilità di allontanarsi per sempre dal sanatorio ma continua a gravitare nella sua orbita, Isa pensa già alla vita oltre la malattia nonostante l’ombra della morte continui a pesare su di lei.
Al centro, abbiamo Emanuel, doppio letterario dello stesso Becher, di cui leggiamo su schermo frammenti del diario scritto durante il soggiorno al sanatorio che funzionano anche come filo conduttore e motore dell’intera azione. Se, infatti, il film si apre tradizionalmente seguendo l’arrivo al sanatorio del giovane protagonista insieme al padre, piano piano la pellicola si frammenta, si fa contenitore per tante piccole scene che vanno a comporre un mosaico di svariati tableaux vivants, dove possiamo riconoscere inquadrature che ci riportano alla mente il Cristo Morto di Mantegna o Lezioni di anatomia di Rembrandt. Su tutto domina l’asse orizzontale su cui l’intero film è costruito come a ingabbiare lo spettatore nella posizione supina cui è costretto lo stesso Emanuel. Allo stesso modo, la macchina da presa rimane immobile per tutta la durata di ogni scena così da mimare quell’immobilità propria dei pazienti adesso elevata a chiave stilistica. Il risultato è un’opera completa che si muove per apposizioni, un’opera che pur ritraendo la malattia trasuda vita e che, seppur rinchiusa nello spazio di un sanatorio, ci delizia con una ricchezza di immagini studiate e colte.