Nell’ultima scena di Colo, già in concorso all’ultima Berlinale, vediamo per la prima volta un movimento di macchina. La cinepresa si avvicina e si allontana osservando una casetta di pescatori in riva al mare: è quasi una carezza linguistica di Teresa Villaverde verso un panorama dalla forza simbolica potentissima. Una delle registe portoghesi più interessanti degli ultimi anni dimostra con questo suo settimo lungometraggio un talento unico nell’osservare e indagare panorami umani, naturali e sociali durante l’attualità di una crisi economica spietata e dolorosissima.
L’auto-dissoluzione di una famiglia
Questa crisi economica colpisce una famiglia della periferia di Lisbona: il padre (João Pedro Vaz) ha perso il lavoro, la madre (Beatriz Batarda) è costretta a svolgerne due, la figlia adolescente (Alice Albergaria Borges) si aliena fra relazioni instabili con il fidanzato, l’assistenza a una compagna di classe incinta (Clara Jost) e un uccellino in gabbia che alleva dentro camera. Mano a mano che la crisi diventa acuta, divora la quotidianità familiare, causando reazioni impreviste e imprevedibili: il padre chiede aiuto a un vecchio amico, la madre subisce sempre di più la pressione fisica e psicologica del lavoro serale, la figlia fugge per un’intera notte con l’amica gravida ritrovandosi il giorno dopo sulla riva del mare. Quando nell’abitazione staccano la luce elettrica per le bollette non pagate, i tre sono costretti a separarsi per dividere al meglio le spese, rompendo un patto sociale e umano, costringendo quegli stessi legami familiari e quello Stato civile all’auto-dissoluzione.
Sprofondare nella crisi
Raccontando una storia simile, ai margini di una Crisi economica totalizzante, la Villaverde non si fa affascinare da scorciatoie drammatiche e non si presta nemmeno per un istante a rendere la disperazione mostrata in tragedia, in didascalia. Anzi, in Colo non si precipita mai, piuttosto si sprofonda lentamente, come quando l’arancione allegro degli interni portoghesi assume progressivamente sfumature oscure all’ombra delle candele che suppliscono alla mancanza di luce elettrica. Non è un caso che l’impoverimento di cui è vittima la famiglia non alimenta le interazioni, ma piuttosto le vanifica, le rende isolate, le individualizza. La crisi economica, sembra dirci la Villaverde, è capace di colpire innanzitutto i rapporti e la comunicazione interpersonale, anche quella di un microcosmo solido e intimo come quello familiare. Ecco allora che i pochissimi dialoghi e i momenti di intimità di Colo sono fagocitati da pedinamenti narrativi sui singoli protagonisti che sperimentano nuovi linguaggi del corpo per entrare in contatto con una realtà sempre più distante, sempre più avversa. La dilatazione dei tempi e degli sguardi si concentra sugli individui disgregati, mettendo in moto una nomadismo sociale e umano che non porta da nessuna parte, come se tutto il film ci raccontasse una fuga personale (e per questo motivo) senza possibilità di salvezza.
In conclusione Colo è un piccolo film, prezioso e potente al tempo stesso. E ciò che sorprende ancora una volta del cinema di Teresa Villaverde è la sua essenzialità fatta di esplosioni silenziose, di corpi e ambienti che si deformano, di metafisiche sociali: tutto capace di rendere palpabili le tendenze di un contemporaneo sempre più irrazionale e intraducibile.