A seguito dell’uscita in home video del cofanetto blu-ray contenente i due capolavori del regista cult Alejandro Jodorowsky (El Topo e La Montagna Sacra), anche La Danza della Realtà (2013) arriva finalmente in alta definizione con CG Entertainment, costituendo un trittico di assoluto spessore per chi intende avvicinarsi all’arte surrealista del maestro cileno.
Primo film del regista dopo i due decenni di pausa dall’opera precedente, ben lungi dal vibrante e violento surrealismo di El Topo, dal misticismo criptico de La Montagna Sacra o dalle tinte cupe e macabre di Santa Sangre, La Danza della Realtà è un racconto più sommesso: una fiaba esplicitamente autobiografica, sebbene a tratti visionaria, della sua infanzia a Tocopilla, nel Cile anni ‘30.
Protagonista è proprio la famiglia Jodorowsky, con il piccolo Alejandrito – bambino fragile ed estremamente gentile – che deve sopportare le ire di un padre severo ed esigente che vuol fare di lui un uomo tutto d’un pezzo. Al contrario, l’amorevole madre Sara, che comunica solo attraverso il canto e in un modo alquanto singolare, ne costituisce il perfetto contraltare. Quando però il padre Jaime, comunista ed ebreo, parte alla volta di una missione pericolosa per uccidere il dittatore cileno Carlos Ibáñez, l’esistenza dei Jodorowsky subirà un cambiamento radicale.
È chiaro fin da subito come la realizzazione de La Danza della Realtà sia a conti fatti un modo per Jodorowsky di esorcizzare i tristi momenti legati alla sua infanzia. A volte è lui medesimo a intervenire in scena davanti alla macchina da presa, proprio per confortarsi con il se stesso bambino, proteggerlo dal mondo e interpretare in prosa raffinata i suoi pensieri. Ma ciò che rende il film estremamente significativo è l’odissea visionaria e totalmente inventata che il regista affresca per il padre Jaime nella seconda parte della pellicola.
Il burbero e scontroso personaggio interpretato magistralmente da Brontis Jodorowsky (figlio di Alejandro e qui nei panni scomodi del nonno) è la figura tragica su cui il regista fa ricadere il peso di tutta la storia, sia essa quella familiare, sia essa quella macroscopica di un Cile in subbuglio. Perché il viaggio picaresco da lui intrapreso con l’obiettivo di assassinare il generale Ibáñez e dimostrare una volta per tutte il suo impegno politico e civile ai compagni di partito e al popolo cileno, assume nel mentre una connotazione profondamente cristologica e redentiva che è bene non trascurare, soprattutto in relazione a film come El Topo e La Montagna Sacra e ai simboli religiosi di cui sono pervasi.
In quest’ottica l’infanzia di Jodorowsky diventa una favola dalle tinte agrodolci che ricorda (molto) alla lontana l’Amarcord di Federico Fellini proprio per quel modo di raccontare il passato come fosse un unico grande sogno. Ecco dunque il motivo per cui alla realtà si compenetra la magia, la metafora, la finzione in un crescendo di situazioni inverosimili e grottesche al cui centro emergono tutti gli archetipi pseudo-religiosi tanto cari al cineasta: uno psicomago, come si definisce lui stesso, che indaga il reale per trasfigurarlo sotto nuovi aspetti e con diversi piani di lettura e interpretazione.
Sicuramente La Danza della Realtà non è l’opera migliore di Jodorowsky, che negli anni ha saputo meglio esprime il suo tormentato mondo interiore con fare meno prolisso e pedante, ma ciò che risulta dalla visione nel suo insieme è per i motivi prima esposti una chiave di lettura preziosissima, essenziale per comprendere appieno quella sua arte così poco decifrabile.