Il periodo che va dai 10 ai 13 anni, bene o male quello che in Italia si passa alle scuole medie, può essere brutalmente difficile: i ragazzi hanno ancora molte delle debolezze tipiche dell’infanzia ma al contempo iniziano ad assaporare una maggiore indipendenza e dinamiche sociali più vicine al mondo adulto. È proprio questo il momento più difficile per i caratteri più defilati, vessati da prepotenti che cercando di affermarsi a danno di chi espone maggiormente le proprie debolezze, ed è proprio estremizzando questo concetto che Wonder – adattamento dell’omonimo romanzo di R.J. Palacio – mette in scena una classica storia di formazione che, passando per il conflitto, giunge a un messaggio di crescita e di apertura verso il mondo esterno.
August ‘Auggie’ Pullman (il giovanissimo Jacob Tremblay di Room, Somnia e Il Libro di Henry) è un bambino che si appresta a iniziare la prima media: un ragazzo per certi versi come tanti, con sogni e interessi tipici della sua età, che però è affetto da una rara malattia genetica che interessa il comparto cranio-facciale.
Auggie nell’arco della sua breve vita è stato già costretto a subire 27 interventi di plastica ricostruttiva, e per via della sua malattia è stato sempre tenuto lontano dal mondo esterno dai genitori intenti a proteggerlo, e ha sempre indossato un casco da astronauta per nascondere il volto nelle rare uscite fuori casa. Istruito dalla madre Isabel (Julia Roberts) e con il padre Nate (Owen Wilson) e la sorella Olivia (Izabela Vidovic) come unici compagni di giochi, con l’inizio del periodo delle medie Auggie si troverà a dover sfidare gli sguardi dei suoi coetanei, i più difficili da sopportare, perché, per la loro età, non sanno e non vogliono dissimulare.
Costruito come un film per ragazzi con una forte impronta pedagogica, Wonder di Stephen Chobsky (già regista e autore di Noi siamo infinito) non fa nulla per nascondere la sua vocazione, ribadendo anzi più e più volte l’intento di far risaltare (a ragione) la diversità come un valore fondamentale contro l’omologazione di quei comportamenti da branco da cui i ragazzi sono troppo facilmente affascinati a quell’età. Fare un film con questi intenti senza scadere nella banale retorica è però difficilissimo, e se nella prima parte di pellicola il lavoro di Chobsky in cabina di regia e quello di Mark Livolsi in sala di montaggio riesce a coinvolgere in maniera eccellente grazie a una prospettiva diacronica che permette di osservare la quotidianità della vita di Auggie attraverso gli occhi di chi gli sta intorno, nella seconda parte questo espediente viene accantonato per passare a una narrazione più piatta e standard, facendo scadere quanto di buono mostrato in precedenza in un melenso calderone di cliché, non salvabile neanche dalle ottime prove recitative dei vari protagonisti.
Il lavoro svolto da Jacob Tremblay è impressionante: riesce a donare espressività al personaggio nonostante l’invasivo trucco prostetico sotto il quale spariscono i suoi lineamenti (ottimo il lavoro di Bree-Anna Lehto e Darah Wyant), e anche la performance della giovane Vidovic, a cui tocca il ruolo più complesso, non è da meno. Solidissima pure l’interpretazione di Owen Wilson, per cui il ruolo del padre non troppo cresciuto sembra cucito addosso, mentre Julia Roberts si limita a non eccedere in una sobria interpretazione di una madre completamente dedita al figlio.
Nonostante dimostri di avere le carte in regola per poter osare, Wonder sceglie, con consapevolezza e ruffianeria, la strada più facile per arrivare dritta al cuore di madri ed educatori, platea facilmente emozionabile di fronte a una storia strappalacrime trattata però con la leggerezza necessaria per diventare un prodotto per tutti. Wonder, in sala da 21 dicembre con Leone Film Group, Rai Cinema e Lionsgate Entertainment, si ritaglierà un posto d’onore nelle programmazioni scolastiche, ma forse niente di più.