Un anno si è concluso ed è quindi tempi di bilanci. Non ci sono dubbi che il 2017 verrà ricordato come l’anno in cui il caso Weinstein ha finalmente portato alla luce gli abusi a sfondo sessuale e i ricatti concussivi sui quali si reggeva una parte considerevole dell’industria cinematografica (e non solo), ma piuttosto che concentrarci su una tematica già così tanto discussa e che, per la sua serietà, non merita di esser derubricata a una semplice voce di una classifica; abbiamo deciso di concentrarci su questioni più prettamente legate alla settima arte per stilare la lista dei 5 nomi che ci sentiamo di bocciare (o, nel caso del quinto, ‘rimandare’). Una “worst 5” da cui emerge anche un dato importante per i festival cinematografici europei: grandissime istituzioni come Cannes e Berlino si stanno rivelando incapaci di intercettare la contemporaneità, mentre la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia si conferma come una realtà straordinariamente importante e al passo coi tempi; un orgoglio tutto italiano per cui non celebreremo mai abbastanza il suo direttore Alberto Barbera. Ecco chi sono i nostri 5 bocciati del 2017.
1. THIERRY FRÉMAUX
L’inizio del suo mandato alla direzione di Cannes nel 2001 fu un gran successo soprattutto perché godette della coda lunga delle scelte del predecessore Gilles Jacob, nominato contestualmente alla presidenza della kermesse. Ma col passare degli anni (non aiutato da Pierre Lescure, succeduto a Jacob nel 2014) Thierry Frémaux ha dimostrato che aver vita facile nel dover operare la selezione tra grandi pellicole non basta: la 70° edizione del Festival di Cannes è infatti stata una disdetta che ha reso evidente al mondo la necessità di un nuovo ‘délégué général’ per la croisette.
L’assenza dei grandi film Hollywoodiani (che ormai, per nostra fortuna, prediligono Venezia), l’inserimento forzato di grandi nomi con lavori deludenti (Polanski e Haneke su tutti), l’anacronistica e ridicola polemica con Netflix (di cui Frémaux ha proposto due pellicole in concorso per poi annunciare la futura inammissibilità dei film dei web service), le dichiarazioni imbarazzanti con cui il presidente di giuria Almodovar ha praticamente escluso dalla gara proprio quei due film, la presentazione delle prime due puntate della stagione evento di Twin Peaks dopo che tutto il mondo le aveva già potute vedere in TV quattro giorni prima, l’annuncio in programma del corto in realtà virtuale Carne Y Arena di Iñárritu (mentre era in realtà un evento chiuso anche alla stampa e aperto a pochi invitati da parte della Fondazione Prada) e infine la Palma d’Oro conferita dalla giuria (in cui piuttosto a sorpresa era presente un Will Smith non proprio a suo agio) al brillante ma controverso The Square – scelta ingiustificabile se si considera che in concorso c’era l’incredibile The Killing of a Sacred Deer di Lanthimos.
Tutto questo basterebbe a mettere Frémaux in cima alla lista dei bocciati, ma dobbiamo inoltre considerare che Cannes ha perso sia il treno della virtual reality – magnificamente sposato nel 2017 da Barbera con Venice VR, costola della Mostra del Cinema di Venezia cui è dedicata tutta l’isola del Lazzaretto Vecchio – che quello della serialità televisiva – cui sarà dedicato Canneseries / Canne International Series Festival, festival indipendente da quello di Frémaux e programmato nella stessa città a partire dall’aprile 2018. Infine l’annuncio sconcertante di voler sovrapporre proiezioni stampa e anteprime pubbliche per evitare ai registi di film deludenti l’imbarazzo dell’umiliazione sui social, non fa che gettare discredito sulla direzione del blasonato festival francese. Se c’è stato un anno in cui il delegato generale di Cannes ha dimostrato la propria sopraggiunta inadeguatezza, è stato proprio quello dei 70 anni della kermesse.
2. DIETER KOSSLICK
Se Atene piange, Sparta non ride. Mentre i recenti e numerosi passi falsi di Frémaux a Cannes arrivano quasi come un fulmine a ciel sereno, è evidente a chiunque come la Berlinale viva una parabola discendente già da diversi anni. Impreziosito ancora da qualche scintilla, ma sempre più relegato ai margini del grande circuito festivaliero (soprattutto in un periodo di grande crescita delle kermesse d’oltreoceano), il Festival del Cinema di Berlino è ormai incapace di intercettare la contemporaneità (se non nelle sue implicazioni più politiche), di attrarre il grande pubblico e di risultare appetibile per le produzioni più importanti. Il responsabile di questa catabasi è principalmente uno, e il suo nome è Dieter Kosslick.
Kosslick, direttore del Festival dal 2001 (proprio come Frémaux), ha infatti concentrato meritevolmente il proprio sguardo sulla capacità del cinema di leggere il reale, nonché sulle produzioni provenienti dalle più disparate aree del secondo e del terzo mondo, dimenticandosi però di cosa significhi gestire un festival ‘di prima fascia’, e quasi rinnegando il glam che è invece insito nel sogno della settima arte. A suonare come un pensionamento anticipato è stata la lettera aperta a lui indirizzata nel novembre dello scorso anno da 79 registi tedeschi (tra i quali Maren Ade, Fatih Akin e Robert Schwentke), che hanno richiesto che la Berlinale venga ripensata dalle fondamenta a partire dalla scadenza del mandato di Kosslick: una mossa che è stata una vera e propria sconfessione dell’operato del direttore della Berlinale da parte del cinema tedesco. Il 2017 si è concluso con l’annuncio da parte di Dieter Kosslick di non volersi ricandidare per lo stesso ruolo a partire dal 2019, suggerendo una futura divisione tra direzione artistica e gestione ordinaria; quasi un’ammissione del proprio fallimento.
3. KEVIN SPACEY
Un attore di straordinario carisma e talento ma anche un uomo apparentemente molto meno degno di stima, che si è giocato malissimo le proprie carte. Quello di Kevin Spacey è probabilmente il nome più prestigioso tra quelli travolti dalla ‘bufera Weinstein‘, e le accuse ai suoi danni non sono di certo di quelle da prendere alla leggera: a denunciarne le molestie sono stati l’attore Anthony Rapp (all’epoca dei fatti quattordicenne), otto membri della troupe di House of Cards, il figlio dell’attore Richard Dreyfuss, quello della giornalista Heather Unruh, l’ex genero del Re di Norvegia e dei collaboratori di Spacey ai tempi della sua direzione dell’Old Vid Theatre di Londra.
A comportare l’inserimento di Spacey in questa lista non sono però i suoi presunti crimini sessuali (che sono questione troppo seria per esser misurata in una ‘pagella’ e che comunque devono ancora addivenire a una realtà processuale), quanto il modo in cui l’attore ha gestito tutta la questione: se infatti la scelta di affrontare spontaneamente un percorso terapeutico può sembrare come una positiva ammissione di colpa (o forse una bassa mossa di marketing?), la decisione di annunciare pubblicamente la propria omosessualità al solo scopo di sviare l’attenzione mediatica dalle accuse a lui rivolte è sembrata una mossa squallida, offensiva per quanti – senza il suo potere – faticano a far accettare il proprio orientamento sessuale.
La reazione dell’Industria allo scandalo che ha coinvolto Kevin Spacey è stata estrema – anche eccessiva, considerato che nonostante tutto nessuno può mettere in discussione i meriti artistici dell’attore statunitense: la dirigenza Netflix è ‘caduta dal pero’ e ha reagito tagliando fuori Spacey dall’ultima stagione di House of Cards e Ridley Scott (temendo un flop e consapevole di esser ricorso a un trucco prostetico a dir poco ridicolo) ha approfittato dello scandalo per escludere Spacey dal suo Tutti i Soldi del Mondo, optando per un recasting a favore di Christopher Plummer e rigirando in tempo record le sue scene. Nonostante l’apprezzatissimo Baby Driver, il 2017 è stato l’anno che ha portato l’opinione pubblica a definire Kevin Spacey come un attore finito. Anche se dubitiamo che Hollywood riuscirà a fare a meno a lungo delle performance del villain perfetto.
4. BEN AFFLECK
Talento multiforme ma discontinuo, coronato anche da un Oscar e un Golden Globe, Ben Affleck non ha certo avuto la più soddisfacente delle annate. Dopo un 2016 in cui aveva saputo imporsi come un Batman convincente e intrattenere con il commercialista tutto azione di The Accountant (che rivedremo in un sequel), ha iniziato malissimo il 2017 con La Legge della Notte – da lui prodotto, scritto e interpretato –, che si è meritato il famigerato bollino ‘rotten’ e, soprattutto, è stato un flop clamoroso con perdite di oltre 75 milioni di dollari.
Il resto dell’anno ha visto poi un progressivo allontanamento di Affleck dal (non più) suo The Batman: l’attore di Gone Girl doveva produrre, scrivere, dirigere e interpretare il nuovo film sul Crociato di Gotham, ma più si sono accumulate incertezze sul Justice League di Zack Snyder (poi passato a Joss Whedon) più è stato chiaro che anche il film di Affleck non avrebbe avuto vita facile. Nell’arco di pochi mesi Affleck ha infatti abbandonato la regia, vedendo poi stracciato il suo script dal successore Matt Reeves e manifestando quindi il desiderio di appendere presto al chiodo il mantello del Cavaliere Oscuro (probabilmente in Flashpoint). Come se non bastasse, nel frattempo è uscito in sala Justice League, che pur segnando un passo avanti nel franchise, ha scontentato la critica (e in parte i fan) e registrato incassi deludenti per la Warner. Insomma, un’annata da dimenticare.
5. I DAVID DI DONATELLO
Per la quinta posizione, non una persona ma un’istituzione. I David di Donatello sono un patrimonio del nostro cinema, un premio storico che dovremmo valorizzare e difendere con tutte le nostre forze. Eppure, complici anni di gestione tutt’altro che attenta, i David hanno finito per diventare l’ombra di se stessi.
Ve ne abbiamo già parlato: a poco è servito il meritevole tentativo di Sky di trasformarli negli Oscar Italiani. In Italia non riusciamo a far nascere un divismo degno di questo nome (complice un’industria cinematografica appiattita su commedie senza pubblico), e se molti degli stessi artisti accettano pubblicamente il riconoscimento con la stessa cerimoniosità che adotterebbero a una sagra di paese, allora lo sforzo di fare un salto di qualità sembra quasi vano. A questo aggiungiamo poi che da anni la regia televisiva dell’evento sembra del tutto inconsapevole della scaletta, e che i testi affidati ai presentatori sono sovente pieni di errori e a tratti imbarazzanti.
Se vogliamo domandarci perché siano gli stessi attori a non prendere sul serio i David (nell’edizione 2017 l’acceptance spreech di molti è consistito in un «non so che dire» seguito da un conto alla rovescia), non possiamo che individuarne la ragione nel sistema ‘malato’ che porta a decretarne i vincitori. A concorrere per i premi sono infatti quasi tutte le pellicole di lungometraggio italiane prodotte in un determinato arco temporale (anche quelle che non hanno avuto una vera e propria release), e la giuria consiste in un leviatano mastodontico popoloso almeno quanto un piccolo stato. La permessa fondamentale per trasformare quello che dovrebbe essere un premio alla qualità in una caricatura di se stesso, in cui i giganti del mercato e della produzione orientano sterminati pacchetti di volti (ma d’altronde chi potrebbe mai vedere tutte le pellicole candidate?), fino all’assurdità dello scorso anno, per la quale 17 premi finiscono assegnati a soli 3 film.
Il decano dei critici Gian Luigi Rondi (che non è mai stato un progressista) è stato presidente dell’Accademia David di Donatello per tutta la sua vita, fino ai 95 anni: non proprio l’età giusta per seguire il premio con l’entusiasmo, le energie e il senso di contemporaneità che meriterebbe. A lui è seguito, per un interim di due anni, il grandissimo regista e attore Giuliano Montaldo, che però con i suoi 87 anni non sembrava di certo la figura più proattiva per il ruolo. Se il 2017 è stato (nonostante gli sforzi di Sky) un anno terribile per i David di Donatello, in extremis potrebbe anche riverlarsi – anzi, ci scommettiamo che sarà così – l’anno della svolta. È infatti del 14 dicembre la notizia che sarà il prestigioso nome di Piera Detassis a succedere all’interim di Montaldo nella direzione dell’Accademia. Una donna di straordinaria preparazione, che ha già dimostrato di poter fare un lavoro encomiabile con la Fondazione Cinema per Roma, di cui è presidente. Se per il 2017 i David sono stati l’anno della bocciatura, a partire dall’edizione 2018 (o più probabilmente dall’edizione 2019, dato che dovremo pur dare tempo alla Detassis di lavorare) potrebbero esser protagonisti della rinascita che stavamo tutti aspettando.