Iniziamo dalla cronaca. Il 3 aprile del 1996 veniva arrestato Theodore John Kaczynski, alias Unabomber (cioè l’originario ‘university and airlines bomber’ americano; nulla a che vedere con quello così ribattezzato dalla stampa italiana in seguito ai suoi attentati in Veneto e Friuli tra gli anni ’90 e ’00). Il serial killer terrorizzava da 18 anni gli Stati Uniti con i suoi pacchi bomba, e quella cattura pose fine a una caccia all’uomo che appassionò gli States per un ventennio.
Manhunt: Unabomber, miniserie Discovery Channel disponibile su Netflix, ripercorre questa storia seguendo due linee temporali: una nel presente narrativo, e una nel passato, nel momento in cui l’agente dell’FBI Jim Fitzgerald viene inserito nella task force dedicata al caso; due momenti diversi che convergeranno, non soltanto materialmente, nello stesso identico punto.
La tematica relativa all’identificazione tra il serial killer e l’agente è stata già affrontata in passato (Manhunter di Mann e Il Silenzio degli Innocenti di Demme su tutti) ed è il cuore pulsante della serie rivelazione Mindhunter di Fincher, ma qui si raggiunge una profondità totalmente diversa, qui si arriva al Nietzsche del “se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te”. Come si cattura un serial killer che non commette errori? Come si scova un criminale che non compare mai sulla scena del crimine? Come si identifica un uomo che odia e uccide da lontano, utilizzando dei pacchi bomba e rendendo praticamente ogni cittadino un bersaglio? L’agente Fitzgerald non avrebbe dubbi e risponderebbe attraverso il linguaggio.
Partendo dallo scritto di Kaczynsky conosciuto come Manifesto (originariamente era questo il titolo della miniserie) ‘Fitz’ inizia una lunga e laboriosa analisi che lo porterà a conoscere ogni dettaglio della personalità di Unabomber, a comprendere ogni folle movente delle sue azioni, ponendo le basi per una vera e propria disciplina scientifica, la linguistica forense. L’utilizzo di un’espressione gergale al posto di un’altra diventa come un’impronta digitale, una parola scritta in maniera diversa appare come un indizio sulla scena del crimine. Ma c’è di più. Questo processo induttivo non sarebbe bastato a portare alla cattura di Kaczynsky. Serviva un ulteriore passo, era necessario scrutare quell’abisso, guardarlo senza chiudere gli occhi, ammirarlo con il rischio di trovarlo affascinante.
Fitz inizierà una lunga discesa verso gli inferi che lo condurrà paradossalmente a vivere come la persona che ha inseguito e assicurato alla legge. Nelle pagine di La società industriale e il suo futuro, il titolo del manifesto di Unabomber, l’agente dell’FBI che trova nelle parole significati che gli altri neanche immaginano, rimane rapito dalle teorie sovversive e folli del serial killer. “La rivoluzione industriale e le sue conseguenze sono state un disastro per la razza umana”: questa frase che apre il saggio diventa per Fitz una vera e propria ossessione fino a farlo deragliare mentalmente portandolo a vivere isolato nei boschi, nello stesso identico habitat in cui aveva catturato il suo “nemico”.
In questo Manhunt: Unabomber è veramente superlativa, nell’indagare il processo di identificazione tra il buono e il cattivo, fino a farli fondere in un’unica indistinguibile entità, ma senza mai scadere nel buonismo o nella giustificazione dei crimini di Unabomber. In questa riuscita operazione brillano le due superlative interpretazioni di Sam Worthington nei panni di Fitzgerald e di Paul Bettany in quelli di Unabomber, capaci di rendere multidimensionali i loro personaggi, mostrandone le insicurezze, le ossessioni, la genialità e i limiti. La miniserie ideata da Andrew Sodroski riscrive e alza l’asticella di questa tipologia di criminal story, costringendo chi deciderà di avventurarsi in futuro in questi meandri a fare i conti con questa produzione. E non basta. Dopo aver visto questa serie, quando vi ritroverete fermi ad un semaforo ad aspettare il vostro destino vi ricorderete delle parole di Fitz e potreste esserne turbati.