Manji (Takuya Kimura) è un samurai in fuga dopo aver tradito lo shogunato. Viene coinvolto in una battaglia in cui accade qualcosa di terribile, e per questo, in preda all’ira, stermina tutti i nemici prima di cadere a terra moribondo. Dal nulla appare una misteriosa donna che inserisce nel suo corpo delle sanguisughe sacre, che da quel momento in poi vivranno in lui suturandone all’istante ogni ferita e rendendolo immortale. Cinquant’anni dopo Manji verrà assoldato come guardia del corpo da Rin Asano (Hana Sugisaki), una ragazzina in cerca di vendetta contro i guerrieri che le hanno brutalmente sterminato la famiglia.
DA CANNES IL CENTESIMO FILM DI MIIKE
Cento film. È una cifra esorbitante quella raggiunta da Takashi Miike con L’Immortale, eppure il più anarchico dei registi del sol levante non mostra nessun segno di cedimento né manifesta l’intenzione di fermarsi (sono già tre le pellicole successive a questa).
Inimitabile sotto tutti i punti di vista, Miike celebra questa cifra con l’ennesimo adattamento da un manga (L’Immortale di Hiroaki Samura) che gli lascia la possibilità di mettere in mostra la solita maestria dietro alla macchina da presa e di esplorare temi già toccati in passato.
L’Immortale, presentato fuori concorso al 70. Festival di Cannes e ora disponibile su Netflix, riprende in qualche modo il discorso iniziato nel 2010 con 13 Assassini, un jidai-geki ipercinetico ed innaffiato da litri di sangue, proposto qui per ovvi motivi con un taglio decisamente più fumettoso e meno filosofico. Non che in L’Immortale non ci sia spazio per riflessioni di varia natura, beninteso.
DAL MANGA AL CINEMA: TANTA CARNE AL FUOCO
Miike si cimenta questa volta con una storia difficile da imbrigliare, visto che traspare da ogni fotogramma l’impostazione “a tappe” tipica del fumetto d’azione, in cui tra uno scontro con un villain e l’altro intercorre una fase più transitoria che approfondisce i personaggi. L’Immortale deve fare i conti con questo aspetto, e qui risultano piuttosto evidenti le difficoltà legate al condensare un manga di trenta volumi pubblicato nell’arco di quasi vent’anni in “sole” due ore e venti.
Dopo un meraviglioso prologo in bianco e nero che sintetizza la storia di Manji, nella prima parte di film Miike si ritrova costretto a dare più importanza agli scontri con gli esponenti della scuola Itto-Ryu (stupendo quello con Kuroi Sabato), sacrificando quindi l’approfondimento del rapporto che si viene a creare tra il samurai immortale e la piccola Rin.
LA MANO DEL REGISTA È BEN RICONOSCIBILE
Nonostante i problemi legati all’adattamento di un’opera tanto grande, il ritmo cinetico e narrativo del film scorre meravigliosamente, mettendo in scena sempre più personaggi ma senza creare mai confusione (cosa che succedeva ad esempio in 13 Assassini) e senza appiattirsi mai ma, anzi, intrattenendo come solo Miike sa fare.
Esteticamente L’Immortale è uno dei film più curati dell’intera filmografia del regista, inoltre le immagini splendide sono qui tenute insieme da un montaggio sonoro insolito; Miike spesso nasconde gli avvenimenti all’occhio dello spettatore, ma li rende perfettamente comprensibili grazie al sonoro, che spesso svela dettagli impercettibili in grado di sovvertire il senso di un’intera scena. Il suono viene caricato di un peso anche eccessivo nel film: la mole di eventi da mettere in scena è tale da non poter permettere al regista di costruire l’epicità di certi sconti facendo ‘respirare’ la scene, e pertanto il compito di sottolineare l’importanza di taluni passaggi viene delegato a una colonna sonora a volte fin troppo invasiva. Da notare però che tutti gli scontri tra Manji e gli uomini dell’Itto-Ryu – che non hanno musica in sottofondo, ma il semplice e brutale suono delle lame che sferragliano o che squarciano la carne – sono in ogni caso di grande impatto.
La sceneggiatura de L’immortale concentra su un tema particolarmente caro al regista: la non oggettività di concetti agli antipodi come ‘giusto’ o ‘sbagliato’. Qualsiasi personaggio si trova di fronte a delle scelte, e Miike fa in modo di assottigliare la linea di confine tra bene e male di modo da instillare il dubbio nei personaggi, e di conseguenza nello spettatore, su quale sia la scelta migliore. La causa di Rin è nobile: deve vendicare la propria famiglia, eppure per farlo deve compiere degli omicidi. Manji allo stesso modo ha ottenuto l’immortalità (da lui vissuta come una condanna) in seguito ad un omicidio compiuto con nobili intenzioni che però si sono rivelate successivamente profondamente sbagliate. Kagheisa ha fondato l’Itto-Ryu con l’intento di vendicare il proprio nonno, e ha quindi le stesse intenzioni di Rin. È davvero malvagio quindi?
Tutto questo viene orchestrato a meraviglia tra un combattimento e l’altro da Miike, che dall’alto dei suoi 100 film continua strenuamente nella sua personalissima operazione di sabotaggio degli elementi cardine del cinema, inserendo riflessioni spesso profondissime in quelle che sono a volte opere di puro e semplice intrattenimento. Inimitabile.