Capace di portare al cinema pellicole superbe con la stessa facilità con cui inciampa poco dopo in lavori deludenti, Ridley Scott è sicuramente tra i registi più tenuti sott’occhio dalla critica statunitense ed europea, entrambe sempre poco propense a lasciar correre anche il più piccolo e trascurabile difetto nei suoi film.
Mai come questa volta però, i riflettori sono stati puntati su di lui: Tutti i Soldi del Mondo è infatti sulla bocca di tutti dall’8 novembre, e cioè da quando Scott e la produzione hanno deciso di escludere dal film l’attore Kevin Spacey – che aveva già concluso le riprese nei panni di Paul Getty Sr. – in conseguenza allo scandalo sessuale da cui era stato travolto, emerso solo dieci giorni prima con le accuse di Anthony Rapp.
GLI OSCAR, LE MOLESTIE E L’IPOCRISIA
La scelta di cestinare la performance di uno dei più grandi attori contemporanei per via della sua condotta personale (senza nemmeno fargli una telefonata, stando all’intervista a EW) è tutt’altro che scontata, perché se è vero che certi comportamenti criminali vanno condannati e stigmatizzati – preferibilmente dopo una realtà processuale –, va anche detto che sono molti i grandi artisti i cui meriti professionali sono sempre stati celebrati a prescindere dalle scelte private – legittime o meno che fossero.
Il dubbio qui però è che Scott, reduce dall’insuccesso di Alien: Covenant (non l’unico degli ultimi anni) e convinto di poter stavolta concorrere agli Oscar, abbia visto in uno Spacey sotto l’occhio del ciclone (e per giunta asserragliato sotto un trucco prostetico di qualità infima) un forte deterrente per il pubblico come per l’Academy, e che al contempo abbia intuito la sproporzionata pubblicità indiretta che un recasting gli avrebbe garantito.
A ciò dobbiamo aggiungere che l’attore chiamato a rigirarne la parte in sole sei settimane, il talentuosissimo Christopher Plummer, non sembra poi sia proprio uno stinco di santo. La giornalista statunitense Ashley Feinberg fa infatti notare che stando ai racconti sessuali della sua autobiografia In Spite of Myself: a Memoir (nella quale si parla ad esempio di una ‘ninfetta’ di 16 anni capace di cose indicibili) e alle sue scelte linguistiche quando si parla di etnie diverse da quella caucasica, Plummer non pare proprio un’autorità morale. E alla luce di queste informazioni, lo scetticismo verso le reali motivazioni del regista si fa più che ragionevole.
UNA STORIA VERA CHE SEMBRA NATA PER UN FILM
Al netto del giudizio morale sulle parti in causa – che interessa sono parzialmente molti cinefili, che stanno già chiedendo una versione alternativa con la performance di Spacey – è il caso di tralasciare le considerazioni di contesto e tornare a parlare del film, in cui Plummer offre una performance tanto solida da non far rimpiangere il suo pur generalmente bravissimo predecessore.
La forza motrice del film si rivela infatti proprio la sua interpretazione, in grado di sorreggere tutte le tematiche della sceneggiatura e di accompagnare gli altri attori che, quasi di riflesso, sono calati perfettamente nelle loro parti.
La storia è quella realmente accaduta a Roma nei primi anni ’70 e raccontata in un saggio di John Pearson, del rapimento del giovane John Paul Getty III (Charlie Plummer), nipote del petroliere J. Paul Getty (Christopher Plummer), all’epoca l’uomo più ricco del mondo. A combattere contro i rapitori che chiedono 17 milioni di dollari di riscatto e contro lo stesso Getty che non vuole saperne di accontentare i criminali nelle loro onerose pretese, è la madre Gail (Michelle Williams), aiutata dall’ex agente della CIA Fletcher Chase (Mark Wahlberg). Saranno lunghissimi i mesi che il giovane Paul trascorrerà con i suoi aguzzini, scrivendo così una delle pagine di cronaca più discusse degli ultimi anni.
UN SOLIDO THRILLER CON QUALCHE CLICHÉ
Possiamo dire con certezza che questa volta Ridley Scott può dormire sonni tranquilli, sapendo di aver confezionato un film che si pone ben al di sopra delle modeste aspettative della vigilia. Nonostante qualche intoppo nella sceneggiatura che inizialmente fatica a imboccare la strada giusta a causa di regressioni temporali forzate e didascaliche, il film riesce a raccontare magistralmente un fatto di cronaca arricchendolo però con tematiche potenti e per niente scontate. Il pubblico italiano sarà certamente infastidito dai cliché attraverso i quali viene ancora una volta raccontato il nostro paese, ma la qualità delle interpretazioni anche dei nostri connazionali – uno su tutti Marco Leonardi nella parte del boss della ‘Ndrangheta Saverio Mammoliti – riesce a superare questi limiti e relegarli ai margini dell’attenzione dello spettatore.
Il rapimento e le torture che il ragazzo deve subire sono il pretesto per portare alla luce le riflessioni sul ruolo del potere legato ai grandi capitali; discorso che stava raggiungendo l’opinione pubblica proprio negli anni Settanta. Così Getty Sr. è il simbolo di un sistema economico capace di decidere della vita (e della morte), collocato in una zona grigia nella quale l’immorale sfocia nel criminale. Allo stesso tempo la pellicola mette in scena anche quella criminalità che proprio in quei tempi iniziava a cambiare pelle, a diventare più ambiziosa (d’altronde nel film è ben specificato: «non sono più i criminali di una volta»). Potentati criminali e potentati economici, contro cui la madre Gail combatte con tenacia, in un affresco storico ben delineato e che si sposa senza sforzo con il dibattito nascente sul ruolo del capitalismo.
Forse il film non sarebbe stato lo stesso con attori diversi: Michelle Williams è perfetta nel suo ruolo di madre e di simbolo di forza: se il suo personaggio viene giudicato come freddo dai comprimari, la sua performance risulta emozionante pur senza eccedere mai nel dramma. Allo stesso modo Mark Wahlberg, che si prende sulle spalle l’onere di traghettare il pubblico tra i due personaggi principali, svolge con grande efficacia il ruolo di capofila nella trama thriller/poliziesca, che è poi quella più importante. Christopher Plummer, come abbiamo già specificato, è la stella del film, tanto da non far credere che abbia impiegato solo 9 giorni a girare le scene che lo riguardano: non è possibile pensare a un Getty diverso da quello che ha portato in scena, così avidamente attaccato non tanto ai soldi, ma al potere che questo comporta.
Tutti i Soldi del Mondo verrà probabilmente ricordato come “il film mai visto di Kevin Spacey”, ma al netto dell’Italia macchiettistica che ritrae, sa anche regalare un solido thriller i cui interpreti avrebbero meritato di non esser adombrati da un convitato di pietra. Per quanto concerne le mire di Scott per la stagione dei premi, basti dire che su un piano artistico ci sono candidati molto più solidi.