C’è una bellissima sequenza finale che chiude England Is Mine, il biopic su Steven Patrick Morrissey proiettato al SEEYOUSOUND Festival di Torino: i luoghi che fino a quel momento erano stati attraversati dal giovane artista vengono mostrati svuotati, nudi, senza vita. Poco dopo una sagoma bussa alla porta vetrata della casa di Johnny Marr, futuro chitarrista degli Smiths. È il 1982 e da quella collaborazione nascerà una delle band più influenti nella storia della musica.
LA GENESI DEL MITO
Questa è la fine. Perché a Mark Gill, regista già nominato agli Oscar del 2014 per il cortometraggio The Voorman Problem, non interessa raccontare il mito ma la sua origine. England Is Mine narra le vicende dal 1976 al 1982, quando Morrissey è ancora un adolescente di Manchester (figlio di una modesta famiglia di immigrati irlandesi). Steven (Jack Lowden) sogna di diventare un cantante, scrive lettere alle riviste musicali (in cui manifesta le proprie sprezzanti opinioni sulle band dell’epoca), appunta poesie su un quaderno e si divide fra il difficile rapporto con un padre che lo vorrebbe sistemato e l’affetto di una madre che si mostra comprensiva verso le sue ambizioni artistiche. Un ragazzo, bisogna dirlo, presuntuoso, egocentrico, supponente, incapace di manifestare materialmente il genio incompreso che sente covare dentro se stesso. Arriverà, per questo motivo, anche a disprezzare il lavoro di ufficio che sarà costretto ad intraprendere per sbarcare il lunario e aiutare la propria famiglia a mantenersi.
IL MORRISSEY CHE BUSSA ALLA PORTA
Insomma, chi si aspetta un biopic della storica voce degli Smiths o un racconto mimetico di uno dei più grandi parolieri inglesi di sempre (i cui testi sono ancora oggi oggetto di studio accademico) non può che rimanere deluso: England Is Mine è lontanissimo dal raccontare quel Morrissey (figuriamoci gli Smiths, di cui non sentiamo nemmeno una canzone per tutto il film). L’artista sembra piuttosto aleggiare, generarsi lentamente, bussare alla porta senza mai apparire davvero. Il Morrissey che conosciamo – il poeta, lo scrittore, il cantante – è presente solo nel suo divenire, tanto che incrociamo la sua produzione letteraria giusto in brevi frammenti poetici che si alternano ogni tanto alle immagini. Per il resto Mark Gill ce lo racconta come un corpo anomalo che non intende normalizzarsi: lo scostante e bravissimo Jack Lowden finisce per apparirci come un odioso ragazzino snob nella Manchester operaia di fine anni ‘70. Antipatico e sgradevole come chiunque altro si ritenga, con poche ragioni pratiche, superiore agli altri da un punto di vista morale e intellettuale.
UN MANIFESTO POLITICO
Tutta l’irritazione che proviamo per questo Morrissey (che ricorda per certi versi lo Steve Jobs di Aaron Sorkin e Danny Boyle) spiega forse anche le reazioni negative che il film ha generato: stroncato dai critici di mezzo mondo, odiato dai fan degli Smiths e disconosciuto perfino dal frontman stesso (pur essendo basato sulla sua biografia autorizzata). Ma quello che non cogliamo è che in England Is Mine non c’è tanto in gioco Morrissey o gli Smiths, la sua vita o la sua demitizzazione, quanto la critica ad una società basata essenzialmente sul lavoro e sul profitto, sulla perdita delle proprie ambizioni, sullo spreco di talenti artistici e intellettuali. Mark Gill lascia da parte l’artista per creare un manifesto politico e sociale di una radicalità sconcertante: più che una biografia sul cantautore e su ciò che è diventato, l’opera del regista sembra parlarci di come sarebbe potuto diventare Morrissey se si fosse arreso alla vita convenzionale e normalizzata della rinata economia inglese, se non avesse provato fino alla fine ad inseguire il proprio ego (per quanto tracotante e borioso), se non avesse ristabilito le distanze fra se stesso e gli altri. Insomma, se non avesse ribadito il suo grande individualismo (“England is mine”) di fronte a una massificazione degli individui che soffoca ogni tentativo di esprimere diversità, poesia e bellezza.
In fin dei conti, nell’ultima sequenza già citata, Morrissey bussa alla nostra porta, non tanto a quella di Johnny Marr. Bussa alla porta di una società dove il fare arte, il fare musica, il fare cinema è ancora attività marginalizzata, condizionata, destituita dal suo ruolo originale e spontaneo, in cui l’immenso mare di potenziali talenti (lo stesso mare evocato all’inizio e alla fine della pellicola) finisce per generare solo delle piccole gocce di splendore, uniche quanto isolate. Ecco perché il Morrissey di England Is Mine è solo un pretesto, una traccia, una goccia nel mare. Invece di essere un lungometraggio che si limita ad omaggiare il grande frontman, l’operazione filmica di Gill ci appare molto più preziosa e indispensabile: è un omaggio a chi ha lasciato sparire il Morrissey dentro di sé o a chi non ha avuto possibilità di coltivarlo fino in fondo. In definitiva a chi, quella porta, non l’ha mai aperta davvero.