Il Rituale (The Ritual), acquistato da Netflix in occasione della sua presentazione al Toronto International Film Festival e ora disponibile in streaming sulla piattaforma, è il perfetto esempio di come si possa creare un film a partire da un genere. È un’opera, quella diretta da David Bruckner e scritta da Joe Barton, che affonda le sue radici nel soprannaturale, ispirandosi a Twin Peaks, a The Witch, alla mitologia nordica e a H.P. Lovecraft.
NON C’È NULLA DI INNOVATIVO, EPPURE TUTTO FUNZIONA
Quattro ragazzi, mesi dopo la morte di un loro caro amico, decidono di passare le vacanze nella Svezia del Nord, per onorare il volere del defunto. Le loro giornate passano nella natura locale, fra una lunga camminata e l’altra. A causa di un infortunio ad un ginocchio che occorre ad uno di loro, decidono di prendere una scorciatoia attraverso una foresta ma, giunta la notte e con essa una fittissima pioggia, si vedono costretti ad accamparsi all’interno di una casa abbandonata. Al loro risveglio cominceranno a temere che qualcosa, all’interno della foresta, li stia inseguendo per ucciderli. Fra suggestioni e incubi, Phil, Dom, Hutch e Luke cercheranno di sopravvivere, mentalmente e fisicamente.
UN BOSCO DI CUI DIFFIDARE, COME IN LYNCH
Ad un certo punto vediamo inquadrata la foresta in uno splendido campo lunghissimo, nel quale la macchina da presa si trova sopra agli alberi e scorre su di essi, passando attraverso la nebbia. La ripresa è identica a quella che apre l’intro della terza stagione di Twin Peaks, differendo da essa soltanto per la mancanza del viso di Laura Palmer in sovrimpressione.
Gli alberi della foresta de Il Rituale sono poi pieni di iscrizioni, di simboli e di rune incomprensibili e, fra queste, compare un’iscrizione che ricorda quello del gufo nella serie con protagonista Dale Cooper. Come David Lynch insegna, però, “i gufi non sono quello che sembrano”.
Tutto Il Rituale è basato su quella frase, su quell’insegnamento: “ Non è come sembra”. I quattro amici devono lottare contro le suggestioni, convincersi che cose come la Loggia Nera non esistono nel mondo reale. Si ripetono a vicenda di restare calmi, cercano di stare uniti ed aiutarsi a vicenda. Come tutti i protagonisti dei film dell’orrore, dinnanzi al sovrannaturale, cercano di rifiutare la sua esistenza. Eppure, in questo senso lo spettatore si trova avvantaggiato: il titolo pretende che ci sia un rituale, una manifestazione del “sovrannaturale” nella vita reale.
ATTENZIONE: Da qui in poi la recensione conterrà degli spoiler riguardanti il finale del film.
UN PARALLELISMO COL MITO CLASSICO
Se guardando The Ritual la mente corre al Lynch di Twin Peaks, con le scene finali il paragone più naturale è quello col labirinto di Cnosso e col mito di Minosse, Dedalo e il Minotauro. Quando si arriva al finale, e finalmente “il rituale” si mostra ai nostri occhi, veniamo a scoprire la verità. La foresta è un labirinto, all’interno del quale vive una creatura spaventosa, squisitamente ripresa dal concept artist Keith Thompson dalle pagine di Lovecraft (si pensi al Ghast) o dal mito norreno. Si tratta infatti di uno Jǫtunn – una razza discendente dai giganti e opposta agli dei – ed è il figlio bastardo di Loki, così come il minotauro lo era della moglie di Minosse e di un toro.
Anziché sette fanciulli e sette fanciulle (che peraltro al minotauro venivano donati), lo Jǫtunn deve cercarsi le prede, intrappolarle e attirarle a sé. A loro promette la vita eterna in cambio della venerazione, chi rifiuta viene semplicemente ucciso. Quel che però è curioso è che mentre il Minotauro necessitava di prede per nutrirsi, lo Jǫtunn no: esercitava il suo potere, quasi per vocazione, su degli esseri “minori” come gli uomini. E Barton riesce magnificamente a rendere l’inferiorità di quegli umani sporchi, genuflessi e con la testa che striscia a terra.
L’unica pecca del film rimane l’incapacità di far seguire a un ottimo svolgimento, spaventoso e mai noioso, un finale che dia il giusto peso alla creatura e all’aspetto mitologico e politico della foresta. Usarla come semplice villain è un grande spreco: l’opera di Barton sarebbe potuta decollare come Dedalo, invece è rimasta a terra.