Il volto di Chadwick Boseman che campeggia in bella vista nell’international poster di Black Panther, nuovo capitolo del MCU dedicato al wakandiano già visto in Captain America: Civil War, è molto più importante di quanto possa sembrare.
NASCONDI LA FACCIA DEL NERO
La scelta di mostrare l’eroe Marvel senza la sua maschera, infatti, è importante quanto lo fu la scelta operata dalla Casa delle Idee nel 1966, quando lanciando un grande messaggio di integrazione introdusse un eroe nero sui propri albi.
Quando fu creato da Stan Lee e Jack Kirby, Black Panther fu il primo supereroe di discendenza africana nei fumetti americani mainstream, precedendo di molto il debutto di altri personaggi afroamericani come Falcon (1969), Luke Cage (1972) o John Stewart (Lanterna Verde per la DC nel 1971). Come è facile immaginare, essendo arrivato addirittura prima dell’omonimo gruppo rivoluzionario afroamericano (il Black Panther Party fu fondato tre mesi dopo il debutto del personaggio sul Fantastic Four #52), Pantera Nera fu un personaggio decisamente coraggioso da introdurre, tanto che la scelta di fornirlo di una maschera che ne coprisse completamente il volto (nascondendone l’etnia) fu operata dalla Marvel per non ‘scioccare’ sin dalla copertina un pubblico non abituato a un certo progressismo.
Proprio per il senso con cui nasce l’abbigliamento dell’alter ego di T’Challa, è un segnale importantissimo che nel 2018, dopo due mandati di Barack Obama ma anche dopo un forte rigurgito del KKK a sostegno dell’attuale Presidente USA, i Marvel Studios vogliano sottolineare senza equivoco alcuno che uno dei più forti eroi del loro pantheon sia nero, così come lo sono quasi tutti i comprimari e comparse del film.
NON UNA STORIA AFROAMERICANA, MA UNA STORIA AFRICANA
Dopo la morte del padre mostrata in Civil War, il principe T’Challa torna nel proprio regno per rivendicare il trono di Wakanda, paese immaginario che ha costruito la propria ricchezza sul rarissimo e portentoso fanta-metallo vibranio. Nonostante questo regno nel cuore dell’Africa subsahariana sia tanto moderno e tecnologicamente fantascientifico da aver scelto di sopravvivere rendendosi invisibile al resto del mondo, l’ascesa al trono rimane legata alle vecchie tradizioni: T’Challa infatti rinuncia temporaneamente ai poteri del Black Panther per affrontare ad armi pari in un combattimento rituale l’esponente di una delle tante tribù rivali.
Quando, acclamato come uomo giusto e saggio, penserà di essersi guadagnato le redini del regno e sarà pronto a concentrarsi sulla missione del Black Panther, aiutato dalle geniali invenzioni della sorella Shuri, emergerà dal suo passato una minaccia che rischierà di riverberarsi su scala mondiale.
UN CAST IMPRESSIONANTE PER UN APPROCCIO QUASI CORALE
Ad eccezione di un paio di notevoli eccezioni (cioè Martin Freeman e Andy Serkis, che tornano al MCU rispettivamente nei panni di Everett Ross e di Ulysses Klaue), Black Panther vanta alcuni dei più amati attori afroamericani di Hollywood. Al fianco del protagonista Chadwick Boseman (straordinario James Brown in Get On Up) troviamo infatti un notevole Michael B. Jordan (Creed, Fantastic 4, Fruitvale Station) nei panni di Killmonger e Laetitia Wright (Black Mirror – Black Museum) in quelli di Shuri. Sullo schermo abbiamo però anche Forest Whitaker (L’Ultimo Re di Scozia, Rogue One – A Star Wars Story), Lupita Nyong’o (12 Anni Schiavo), Daniel Kaluuya (Scappa – Get Out), Danai Gurira (la Michonne di The Walking Dead), Sterling K. Brown (This Is Us) e Angela Bassett (Strange Days, American Horror Story).
Tutti attori di comprovato talento che contribuiscono a fare di Black Panther uno dei cinecomic stand-alone con il miglior cast del Marvel Cinematic Universe, arricchendo così una storia che, pur mantenendo il focus principale su T’Challa, ambisce a ritrarre un intero universo narrativo, tanto ampio quanto autonomo dall’America ormai familiare di Iron Man e Cap.
UN TRIONFO DI ACTION E SCI-FI CHE PERÒ BRILLA PER LO SCRIPT
È proprio la storia il vero punto di forza del film, nonostante sia presente una sovrabbondanza degli elementi che contribuiscono a rendere spettacolare un blockbuster del genere, dall’azione alla fantascienza.
Se l’intrattenimento non manca (nonostante qualche sparuto momento comico non centratissimo e dei VFX che ancora una volta fanno sembrare il corpo del protagonista poco realistico nelle scene di combattimento) a colpire è la straordinaria ricchezza della sceneggiatura e l’intelligenza dell’approccio scelto dal regista Ryan Coogler (Creed, Fruitvale Station), che firma anche lo script a quattro mani con il Joe Robert Cole di The People v. O. J. Simpson: American Crime Story.
Avendo nel dibattito razziale un ruolo simile e superiore a quello che il Wonder Woman di Patty Jenkins ha avuto nel discorso sulla parità di genere (altra tematica importante anche nel film di Coogler), e proponendo una stratificazione di messaggi politici ben superiore al pur fantastico Scappa – Get Out, questo cinecomic sui generis riesce ad essere il più importante film del MCU di sempre. Se infatti non avrà il merito che ebbe il primo Iron Man di avviare un mondo o quello del primo Avengers di definirne le interazioni, è il primo film di supereroi della Casa delle Meraviglie capace di trascendere il genere e avere un impatto straordinariamente potente sulla società.
UN FILM ANCORA PIÙ POLITICO DI SCAPPA – GET OUT
Come infatti testimonia l’hashtag #WhatBlackPantherMeansToMe, diventato subito trending topic su Twitter, Black Panther è riuscito a inserirsi con grande forza nel dibattito sulla cultura nera, diventando immediatamente una bandiera del black pride proprio in virtù del grande rispetto che trasuda in ogni fotogramma verso la cultura africana.
La premessa di immaginare una società ricchissima e tecnologicamente iper-evoluta nel cuore del continente africano, infatti, diventa una grande ispirazione (soprattutto per i bambini afroamericani che cresceranno riconoscendosi nell’eroe del film) non solo per la sua forza di ipotizzare un paese africano che non è stato sacrificato sull’altare del progresso europeo prima e americano poi, ma per il fatto di farlo trovando una strada originale che non è l’ennesima riproposizione del modello sociale occidentale, che non cade nel vizio dell’aspirazione verso la società bianca come unica strada di sviluppo possibile.
Se Wakanda è riuscita a prosperare è stato proprio nascondendosi allo sfruttamento delle risorse naturali (chiara l’allusione al colonialismo), ma nel suo svilupparsi è rimasta fedele a un’identità antropologica che vede nella cultura tribale un elemento ineludibile, nella ritualità una ricchezza da salvaguardare e nel gusto estetico una specificità di cui andare orgogliosi (prevediamo sin d’ora l’Oscar 2019 per i migliori costumi, a coronare il lavoro senza precedenti fatto da Ruth E. Carter).
L’identità black raccontata da Coogler riesce a risultare fedele anche agli elementi più controversi della cultura africana e afroamericana, come la bellicosità tribale o la violenza delle gang di strada – di cui viene offerta una declinazione assolutamente brillante.
PIÙ SHAKESPEARIANO DI THOR, RACCONTA ANCHE LA LOTTA TRA ‘FRATELLI’
A dispetto di quando possa sembrare dal trailer e dalla scelta di far incarnare il nemico di Black Panther a una sorta di doppelgänger del protagonista, il nuovo cinecomic Marvel si distingue anche per la scrittura dell’antagonista, probabilmente il più solido di sempre – almeno per quanto concerne lo script.
Se infatti l’imprevedibile Loki si regge sul grande carisma di Tom Hiddleston o l’Avvoltoio, nel suo doppio ruolo di criminale e ‘padre della sposa’, offre una facile sponda al talento di Michael Keaton, il Killmonger di Michael B. Jordan è il villain con le motivazioni più solide che il MCU ricordi. Senza entrare nel dettaglio ed evitando spoiler, possiamo dire che per la prima volta il motore narrativo di questo racconto di supereroi neri riesce a riverberarsi sulla contemporaneità e a offrire molti spunti di riflessione soprattutto agli spettatori più giovani (ma non solo a loro).
Ad arricchire il copione del film c’è poi una fittissima rete di richiami shakespeariani, molto più espliciti anche di quelli fatti da Kenneth Branagh in Thor, eppure molto meno noiosi. Anzi, la dinamica del rapporto tra padri e figli, tra fratelli e consanguinei, diventa un pretesto mai noioso per riflettere anche sui numerosi contrasti interni alla cultura afroamericana, che si tratti della lotta tra gang o del pericoloso ruolo della violenza di strada come fattore identitario per gli afroamericani dei quartieri più disagiati.
Sempre sullo stesso solco si inserisce lo spunto su quale approccio debba avere la ‘rivoluzione’ afroamericana, non senza approfittare di una delle storyline per raccontare metaforicamente il modo in cui i quartieri alti della metropoli (o i paesi ricchi in generale) abbandonano le minoranze indigenti, arrivando addirittura a un messaggio vagamente anti-capitalista nella prima scena post-credits.
In conclusione Black Panther è un film che scorre sorprendentemente bene, visivamente mozzafiato, a cui si perdona qualche piccolo difetto per via di uno script incredibilmente profondo e ricco di livelli di lettura. Come se non bastasse, la clamorosa colonna sonora di Kendrick Lamar (nel film arricchita anche da percussioni tribali e un paio di passaggi quasi alla John Williams) varrebbe da sola il prezzo del biglietto.