La poetica di Paul Thomas Anderson, senza dubbio uno dei più importanti autori viventi, si è andata formando lentamente. Dopo l’esordio folgorante seppur ancora acerbo di Sidney (titolo originale Hard Eight, 1996), in cui in qualche modo erano presenti in nuce buona parte degli elementi che avrebbero caratterizzato il suo cinema più maturo, lo sguardo di Anderson si allontanò dai propri personaggi per inquadrarli in una prospettiva più corale, con due lavori tanto eterogenei quanto ugualmente importanti: Boogie Nights (1997) e Magnolia (1999).
Fu con l’instabile equilibrio raccontato nel bellissimo Ubriaco d’Amore (Punch-drunk Love, 2002), premiato per la regia a Cannes ma naufragato in un fallimento al box office, che Anderson iniziò un percorso che poi avrebbe visto ne Il Petroliere (There Will Be Blood, 2007), in The Master (2012) e Vizio di Forma (Inherent Vice, 2014) un’evoluzione quasi naturale. Un percorso che si sarebbe snodato tra storie diversissime tra loro, ma accomunate dalla necessità di raccontare per sottrazione, da protagonisti con psicologie sfuggenti, da una destabilizzante sensazione di solitudine e incomprensione, nonché da un’evidente incapacità da parte dei personaggi di avere o mantenere il controllo della propria vita. È proprio in continuità con questa poetica che si pone Il Filo Nascosto (Phantom Thread), il nuovo lavoro del regista losangelino, distribuito da Universal in Italia a partire dal 22 febbraio.
UNO STILISTA RINCHIUSO NELLA SUA FORTEZZA
Londra, anni ’50. Reynolds Woodcock (Daniel-Day Lewis) è un rinomato stilista che progetta ambitissimi abiti per l’alta società; un uomo dalla presenza autorevole e dai modi decisi ma sofisticati, che incute un naturale timore reverenziale in chiunque si relazioni con lui. La sua arte occupa quasi ogni spazio della sua vita organizzatissima, che ad eccezione di qualche evento mondano si svolge interamente nel suo atelier. Da quando – anni prima – la venerata madre se n’è andata, l’unica presenza costante nella sua vita è la sorella Cyril (Lesley Manville), con cui condivide finanche l’abitazione, in un rapporto quasi simbiotico.
Sarà il folgorante incontro con la cameriera Alma (Vicky Krieps) a portare una ventata di emozione nella vita rigida e algidamente egocentrica di Woodcock, ma solo il tempo potrà dire se Alma si rivelerà una delle tante muse che si sono succedute nella vita dello stilista o se, con il suo carattere devoto ma testardo, riuscirà a fare breccia nella fortezza che Reynolds si è costruito attorno.
UN FILM TOSSICO CHE RACCONTA LO SPAZIO CHE CI SEPARA
Come già anticipato, anche in Il Filo Nascosto (Phantom Thread) P.T. Anderson si muove negli spazi che separano i suoi personaggi. Piuttosto che tuffarsi nella psiche dei protagonisti ed esplicitare il percorso che l’ha delineata, Anderson dissemina il film di indizi senza mai spiegare troppo.
Reynolds, Alma e Cyril hanno personalità complesse ed estreme, e sono quasi dei rompicapo che solo nel finale, con un sapiente lavoro di costruzione progressiva, inizieremo a comprendere più a fondo. La sceneggiatura firmata da Anderson sembra infatti un lungo e imponente lavoro di costruzione concepito per svelarsi nella sua natura profonda solo al termine del film, nonostante sia percorso da singoli momenti che, in un colpo d’occhio, racchiudono l’intera essenza dei personaggi: la misurazione del corpo di Alma, il litigio durante una cena o i festeggiamenti di capodanno.
Se nelle scuole di cinema si insegna che ogni script sfrutta il bilanciamento di potere tra i personaggi per raccontare una storia, sembra che nel suo ultimo straordinario film Anderson voglia mettere al centro della narrazione gli equilibri di potere stessi, liberandosi quasi interamente di ogni sovrastruttura. Il risultato è un racconto ipnotico sul nostro bisogno di guadagnare e perdere il controllo.
L’INTERPRETAZIONE DELLA VITA PER LEWIS, UNA PROVA IMMENSA PER LA KRIEPS
Sembra quasi lapalissiano celebrare il talento dell’attore protagonista, che dopo questa pellicola ha annunciato il suo ritiro dalle scene, ma non lo è il sottolineare come questa sia la più indimenticabile performance della carriera di Daniel-Day Lewis: straordinariamente ricca di sfumature; magnetica eppure respingente. Un percorso così travolgente da causare nel method actor la depressione che lo ha portato a chiudere con la recitazione.
Il modo in cui l’interprete riesce a trasformarsi e a plasmare un personaggio che sembra godere di vita propria è addirittura superiore a quanto visto ne Il Mio Piede Sinistro (1989), ma a colpire lo spettatore è l’incommensurabile talento della quasi sconosciuta Vicky Krieps, che riesce non solo a non soccombere alla presenza scenica della sua controparte maschile, ma addirittura a offrire una performance non meno stupefacente, tanto per definizione che per carica emotiva.
IL LINGUAGGIO DI ANDERSON È ORMAI PERFETTO
La cura, l’ispirazione e l’intelligenza dietro ogni singolo movimento di macchina di Paul Thomas Anderson lo rendono ormai uno dei più importanti autori nella storia della settima arte, nonché la personificazione di quanto di meglio il cinema contemporaneo sappia offrire. Che si tratti delle lentissime carrellate con cui ci trattiene nella casa-laboratorio di Woodcock, dei sussulti con cui segue la macchina del protagonista o dei insistiti dettagli con i quali ci restituisce l’attenzione che il protagonista riserva a cuciture e tessuti, il vocabolario cinematografico di P.T.A. si regge su un’economia perfetta. Ogni scelta sembra la migliore possibile, e la composizione dell’inquadratura, con i suoi colori dal sapore vintage (gli stessi del magnifico The Master), cede spesso a un pittoricismo mai stucchevole.
Impossibile però parlare del film senza citare la meravigliosa colonna sonora composta di Jonny Greenwood (chitarrista dei Radiohead, alla sua quarta collaborazione con Anderson) o i costumi di Mark Bridges; elementi che concorrono ugualmente a definire la straordinaria esperienza artistica rappresentata dal film.
IL CHITARRISTA DEI RADIOHEAD E UNA MERAVIGLIOSA SOUNDTRACK ISPIRATA A GLASS, GRIEG E HANDEL
Greenwood, con le sue sonorità scomposte, cacofoniche e suadenti, permette ancora una volta al regista di trasportare al di fuori del tempo un racconto che altrimenti avrebbe una collocazione cronologica molto precisa. La firma autoriale del musicista è riconoscibilissima, ma a costruire il tessuto sonoro di Phantom Thread non ci sono solo percussioni legnose, archi pizzicati, riverberi ed echi, accenni di arpa e chitarra o corde di pianoforte pizzicate e poi suonate tramite bacchette per cimbalom: abbiamo infatti anche stridenti melodie affidate a violini, violoncelli e sorprendenti delay. Sono proprio i passaggi più strutturati della colonna sonora a insinuarsi nella mente dello spettatore, e nonostante gli evidenti i richiami alle American Four Seasons di Philip Glass, ai Lyric Pieces di Grieg o alla Sarabanda di Handel, diventano qualcosa di completamente indipendente, che con imprevedibili cambi di tonalità, tempi dispari e discontinui, e ‘armonie’ cacofoniche sfida di continuo la gestalt uditiva dello spettatore, mettendolo a disagio.
DANIEL-DAY LEWIS, CALATO NELLA PARTE DI WOODCOCK, HA AIUTATO A DISEGNARE I COSTUMI DEL FILM
Il lavoro svolto dal costumista Mark Bridges per il film è in sé un’opera imponente, e – al contrario della soundtrack – svolge un ruolo fondamentale nel collocare il film e il personaggio di Reynolds Woodcock nella cornice temporale in cui è ambientato il film. La storia di Phantom Thread si svolge all’incirca nel 1955, cioè circa otto anni dopo il debutto del “new look” di Dior a Parigi, e orientativamente un lustro prima della diffusione in Inghilterra delle confezioni industriali di alta moda, che avrebbero reso accessibile lo stile più ricercato alle masse.
La difficoltà principale nel creare un’intera linea di moda originale per il film non è stata tanto quella di studiare con un approccio quasi maniacale la moda e le tendenze dell’epoca, o di concepire e realizzare a mano una sterminata serie di abiti straordinari, che potessero sembrare le inarrivabili creazioni di uno dei più grandi disegnatori di moda al mondo. La vera sfida per Bridges è stata quella di creare una collezione che esprimesse la personalità originale dello stilista, che risultasse nuova pur essendo perfettamente coerente con le tecniche, i gusti e i materiali del 1955, ma che non somigliasse alle collezioni di nessuno degli altri grandi creatori d’alta moda del tempo.
Ovviamente Bridges ha centrato perfettamente il suo obiettivo, ma quel che è interessante è che Daniel-Day Lewis – che da consumato method-actor ha studiato per un anno e mezzo moda ed è arrivato a confezionare perfettamente una replica di un abito storico di Balenciaga – è entrato così tanto nella parte da contribuire alle scelte di design di Bridges. È stato infatti Lewis (o forse dovremmo dire Woodcock in persona) a pretendere alcune particolari linee degli abiti, a definire la predilezione per il lavanda e il bordeaux della sua casa di moda e addirittura a scegliere il proprio abbigliamento scena per scena (compreso il memorabile abbinamento di pigiama e cardigan con cui affronta uno dei momenti più importanti della pellicola).
Se a ciò aggiungiamo che alcuni dei capi realizzati meriterebbero di esser mostrati in un museo (uno di essi, ad esempio, incorpora un pizzo fiammingo realmente risalente al 1600), è presto detto perché anche solo i costumi de Il Filo Nascosto varrebbero il prezzo del biglietto.
In conclusione Il Filo Nascosto è una pellicola indimenticabile, destabilizzante ma affascinante, che attraverso il racconto di una mascolinità e di una femminilità tossiche ritrae i rapporti umani come l’unica possibile fonte di sofferenza o di salvezza, come un improbabile armonia tra empatia, sadismo, dipendenza e respingimento.
UPDATE: Il Filo Nascosto è arrivato in home video Universal Pictures Home Entertainment, in un’edizione estremamente curata e ricca di contenuti speciali. Tra gli extra: PROVE DI SCENA – con commento audio di Paul Thomas Anderson, FOR THE HUNGRY BOY – collezione di scene tagliate, musica di Jonny Greenwood, HOUSE OF WOODCOCK – lo spettacolo della moda raccontato da Adam Buxton, DIETRO LE QUINTE – fotografie del film di Michael Bauman con versioni demo della colonna sonora di Jonny Greenwood.