Nel Novembre del 2017, ben 79 eminenti personalità del cinema tedesco – fra cui Fatih Akin e Marien Ade – hanno firmato una lettera aperta, pubblicata sul quotidiano Spiegel, a proposito della cattiva gestione del Festival di Berlino da parte del suo direttore Dieter Kosslick, insediatosi nel 2001 e in carica fino al 2019. Il passo più importante della lettera, nonché il più critico, riguarda la posizione della Berlinale nei confronti degli altri due festival più importanti al mondo:
«L’obiettivo dev’essere quello di trovare come curatore una personalità d’eccezione, appassionata di cinema, ben inserita nel contesto internazionale, capace di guidare il festival verso il futuro e di rimanere al passo con Cannes e Venezia.»
Nonostante la qualità media dei titoli presentati alla scorsa edizione della kermesse francese abbia scontentato molti e l’asservimento alla lobby della distribuzione cinematografica abbia costretto il management a una posizione anacronistica, la Croisette è ancora la casa del cinema d’autore. La manifestazione diretta da Thierry Fremaux può infatti sempre schierare diversi nomi importantissimi in concorso e in giuria, senza tralasciare le sezioni collaterali (Un Certain Regard, la Quinzaine des Réalisateurs e la Semaine de la Critique), che vantano la scoperta di autori come Yorgos Lanthimos e Xavier Dolan.
Dal canto suo, Alberto Barbera ha fatto della sua Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia il punto di partenza dei grandi film americani per la stagione dei premi, inanellando una serie di ottime scelte che sono state poi premiate dagli Oscar, e ha saputo fare della Laguna anche un punto di riferimento sia per i grandi web service (tra i quali Netflix gioca quasi come monopolista) sia per l’innovazione della realtà virtuale. Tutto ciò senza scordare l’importanza del grande cinema europeo e internazionale.
Se Cannes e Venezia godono di così buona salute, allora, perché la Berlinale fatica tanto a reggere il confronto?
LA QUANTITÀ A SCAPITO DELLA QUALITÀ
Uno dei principali problemi che i detrattori rimproverano a Kosslick è la sovrabbondanza di pellicole presenti al festival, spesso a discapito della qualità delle stesse. Nel 2017, per esempio, sono stati presentati ben 365 film – divisi fra concorso e sezioni collaterali – a 17.333 giornalisti, e allo European Film Market, uno dei più importanti del mondo, si registrano quasi diecimila addetti ai lavori e 728 pellicole in anteprima. Sebbene le due manifestazioni, ovvero il mercato e il festival, siano due realtà distinte e rivolte a pubblici diversi, la loro concomitanza è un dato da tenere in considerazione. Osservare nell’insieme questi numeri permette infatti di avere una proporzione della vastità dell’offerta della Berlinale e della sua struttura magmatica, e rende ovvio che la presentazione di una copia tanto spropositata di titoli finisce per essere indice dell’incapacità del direttore di indirizzare, orientare e mettere in vetrina dei prodotti che sappiano dare lustro al festival, facendo sparire le pellicole migliori nei meandri di una selezione ciclopica e irragionevole (spesso nelle sezioni collaterali).
A confermare questa assenza di visione, vi sono poi scelte decisamente opinabili da parte della giuria (il più recente Orso d’Oro, Touch Me Not, è stato detestato da pubblico e critica) e la scarsa lungimiranza dei selezionatori del festival, che negli anni hanno rifiutato film di capitale importanza, tra i quali Il Figlio di Saul e Le Vite degli Altri, entrambi poi vincitori dell’Oscar per il Miglior Film Straniero.
L’ASSENZA DI UN’IDENTITÀ
Per un festival avere una linea, qualunque essa sia, è fondamentale. Come accennato sopra, Alberto Barbera inserisce in concorso a Venezia (e con grande orgoglio) diversi film che fino a qualche anno fa sarebbero stati considerati ‘estranei’ al normale mondo festivaliero, come La La Land o Arrival; mentre Fermaux raramente accetta che delle grandi produzioni statunitensi finiscano nella sezione principale di Cannes (si pensi ad esempio a Mad Max: Fury Road, relegato fuori concorso). Le due manifestazione cinematografiche più importanti del mondo sono inequivocabilmente riconoscibili, possiedono un’identità editoriale, un ferrea direzione e un’importante divisione gerarchica. Ciò che è in concorso è ciò che i critici devono assolutamente vedere, e le migliori pellicole delle altre sezioni sono ben segnalate sia durante la conferenza stampa sia dalla loro collocazione nel calendario festivaliero.
La Berlinale invece ormai non può contare sui grandi nomi del cinema d’autore, che prediligono Cannes, né (con rarissime eccezioni) sul grande cinema americano, che è ormai di casa in Laguna, e così Dieter Kosslick si trova a presentare centinaia di film in una miriade di sezioni, ma ad avere un’offerta mal delineata e di scarsa importanza.
SU COSA POTREBBE PUNTARE LA BERLINALE?
Che si tratti di una manifestazione, una rivista o un canale televisivo, tutto ciò che offre intrattenimento necessita perlomeno di un filo conduttore, in grado di giustificare la presenza di certi elementi al suo interno. Il Festival di Berlino, una volta fucina di nuovi talenti e politicamente orientato, ha perso la sua forma originale e non riesce a trovarne una nuova.
Innanzitutto, a differenza degli altri due grandi festival europei, non gode di legami particolarmente stabili con certe realtà dell’industria cinematografica. Cannes ha un rapporto quasi esclusivo con molti dei grandi autori, e il suo ‘roster’ comprende, per esempio, i tre maestri nostrani: Sorrentino, Garrone e Moretti, che presentano le loro pellicole, ormai da diversi anni, alla corte di Fremaux. Il Festival di Venezia invece non può vantare un rapporto così stretto con determinati cineasti, ma in compenso gode di una corsia preferenziale che lo collega direttamente a Hollywood.
Con gli Orsi d’Oro assegnati agli iraniani Taxi Teheran e Una Separazione sembrava che il Festival del Cinema di Berlino avesse imboccato la strada giusta, scovando due produzioni politicamente impegnate e di grande qualità – provenienti dal Medio Oriente – e facendole conoscere al pubblico. Il film di Asgar Fahradi vinse addirittura l’Oscar come migliore film straniero, mentre il primo premio al film di Panahi comportò uno dei più intensi momenti nelle premiazioni non sempre memorabili dei grandi festival: il regista, impossibilitato a raggiungere la Germania per ordine del governo Iraniano, mandò la nipote ad accettare il premio per lui. Nonostante questi successi, però, l’incostanza di Kosslick impedì alla kermesse tedesca di svilupparsi nella giusta direzione.
UN FESTIVAL TRADITO
La Berlinale è stata tradita dagli autori a cui aveva dato la fama. È stata tradita fra gli altri da Fatih Akin (cofirmatario della lettera aperta), che dopo aver vinto giovanissimo l’Orso d’Oro con La sposa Turca nel 2004, ha disertato la Germania per approdare in Italia e in Francia. È stata tradita da Fahradi, dopo quel capolavoro del 2011, ha presentato le sue successive opere al Festival di Cannes. Ha visto infine anche il voltafaccia di Maren Ade, che ha fatto conoscere al pubblico la sua poetica proprio al Festival di Berlino, nel 2009, con Everyone Else, per poi rivolgersi alla Croisette e quindi siglare il suddetto j’accuse contro Kesslick.
Se l’ingratitudine dei suddetti non è degna di lode, va detto che Dieter Kosslick ha la colpa, quantomai grave, di non riuscire a trattenere i talenti scoperti. Il Festival di Berlino finisce così per sembrare una sorta di settore giovanile sportivo, che tanto fatica a coltivare e scovare talento per poi lasciarselo scappare via dopo una manciata d’anni. Compagni fedeli e sodali Kosslick non ne ha più, eccezion fatta per registi come Christian Petzold o lo stesso Wes Anderson. Dalla Germania non arrivano grandi successi commerciali, il film premiati spesso faticano comunque a trovare distribuzione e raramente arrivano dall’altra parte dell’oceano. Concorso e Panorama cambia poco: ogni volta che si entra in sala, a Berlino, non si cosa ci si troverà davanti.
LE PROSPETTIVE FUTURE
Sia chiaro: il Festival di Berlino resta di importanza capitale. È il primo in Europa a livello di pubblico in sala (ma non di giornalisti), ha in sé un mercato dell’audiovisivo tra i migliori del mondo e quest’anno porta ben due pellicole in concorso nella cinquina dell’Oscar per il Miglior Film Straniero: Una Donna Fantastica e Anima e Corpo – la prima delle quali ha poi vinto l’ambito premio.
Tuttavia, Kosslick è stato abbandonato da tutti. Se fossimo in politica, sarebbe già stato vittima di un impeachment. Non riesce a ottenere i film più importanti della stagione, perde i talenti da lui reclutati e fatica ad associare il suo festival ad un corrente artistica, a delle ragioni politiche o semplicemente ad un pugno di autori sui quali poter sempre contare. Insomma, si trova solo e sperduto, in attesa di lasciare una carica di importanza cruciale.
Chiunque verrà dopo – troppo presto per ipotizzare dei candidati – dovrà rifondare la manifestazione; partire da zero e decidere finalmente quale strada dovrà imboccare la Berlinale. Senza un brusco cambio di rotta, l’orso più famoso del cinema rischia di perdere tutto il rispetto guadagnato in ben sessantotto anni di lavoro.