Netflix, come oramai è chiaro a tutti, sta espandendo la propria offerta con titoli di ogni genere e tipo, e con The Outisider di Martin Zandvliet (regista del ben accolto Land of Mine) arriva a coprire anche il filone dello yakuza movie.
Il film è ambientato nella Osaka del secondo dopoguerra, nel cuore degli anni ’50, e racconta la storia di Nick (Jared Leto), americano detenuto in una prigione giapponese, e del suo compagno di cella Kiyoshi (Tanaobu Asano). Nick aiuta il compagno ad evadere e quest’ultimo, una volta fuori, si sdebita accogliendolo nella famiglia mafiosa Shiromatsu, di cui è un fedele affiliato.
Nick si unisce al clan e assiste alle lotte intestine e alla rivalità con gli Seizu, originari di Kobe ma protagonisti di una grandissima espansione che mette in pericolo l’autorità degli Shiromatsu sul porto di Osaka, mentre intreccia una relazione amorosa con la sorella di Kyoshi, anch’essa affiliata.
LA PRODUZIONE TRAVAGLIATA
La storia produttiva del film è stata piuttosto incerta per anni, infatti la regia era stata inizialmente affidata a Daniel Espinosa e la parte di Nick a Micheal Fassbender; in seguito il testimone passò a Takashi Miike – che deve gran parte del proprio successo ai numerosi yakuza-eiga da lui diretti come Agitator, Ichi the Killer e Graveyard of Honor, giusto per citarne alcuni – poi a sua volta scaricato in seguito al rifiuto di Tom Hardy di partecipare come protagonista. È così che la produzione ha infine deciso di affidare il film a Zandvliet e il ruolo di protagonista a Jared Leto, nonostante le – oramai onnipresenti – accuse di “whitewashing” dovute all’attribuzione del ruolo di protagonista ad un attore americano nonostante il film sia ambientato in Giappone (ma forse qualcuno si è dimenticato del fatto che negli anni ’50 gli Stati Uniti erano forza occupante del suolo giapponese e che, di fatto, senza uno “straniero” nel cast il film non avrebbe avuto nessun motivo di esistere).
TANTI, TROPPI STEREOTIPI
Il vero problema di The Outsider è che, nonostante sia evidente l’impegno economico di Netflix e l’apparente conoscenza di Zandvliet del genere affrontato, è ben lontano dall’essere uno yakuza movie soddisfacente.
Il film infatti è una rilettura del genere – piuttosto furba, va detto – destinata ad un pubblico che non ha nessun tipo di conoscenza della malavita nipponica, e che è basata principalmente su stereotipi ben consolidati nella cultura occidentale. Ecco quindi che al suo interno compaiono il sumo, accompagnatrici simili a gheishe, katane, bagni termali e organizzazioni malavitose che con la Yakuza hanno davvero poco a che vedere, ma che sembrano banalmente la versione orientale di clan mafiosi americani dello stesso periodo.
LA SCENEGGIATURA DEBOLE
Inoltre se da un lato c’è l’evidente gusto di Zandvliet dietro alla macchina da presa, dall’altro risulta altrettanto palese la fragilità della sceneggiatura, figlia di una scrittura frettolosa ed estremamente superficiale che oltre ad ignorare le vere dinamiche interne di un clan mafioso giapponese, ruota attorno ad un protagonista piatto, statico e che non ha alcun carisma.
Nick non ha uno scopo, non è chiaro a nessuno per quale motivo decida di affiliarsi a Shiromatsu, spesso non c’è il minimo senso dietro le sue azioni, non si sa nè per quale motivo inizialmente si trovi in cella con Kiyoshi né tantomeno è presente alcun tipo di crescita o evoluzione del personaggio lungo tutta la vicenda narrata. Le uniche cose che si sanno sul suo passato ci vengono imboccate da una scena che è così breve e sbrigativa da sembrare inserita a forza nel film come “contentino” per i più curiosi; senza parlare del finale, in cui appare evidentissima la mancanza di idee e che si risolve di fretta e, ancora una volta, in maniera per nulla credibile. Non a caso con una scrittura così approssimativa anche un discreto attore come Jared Leto e uno dei più grandi attori giapponesi di sempre come Tadanobu Asano sono evidentemente poco ispirati e offrono interpretazioni appena sufficienti.
UN FILM FATTO PER PIACERE A TUTTI
The Outsider non è un brutto film. Ha innumerevoli difetti, certo, ma scorre offrendo un buon intrattenimento per tutto il suo metraggio – se si decide di ignorare la sua poca attinenza ad un genere che, dove è nato, ha ancora moltissimo da dire. Il problema è che l’operazione commerciale è evidentemente studiata a tavolino proprio per piacere a tutti (e in questo Netflix è maestra), ma proprio per questo risulta gradevole e poco più. Sarebbe stato più degno di rispetto un film che ce la mettesse tutta risultando pessimo piuttosto che uno che si impegna il minimo possibile risultando mediocre e dimenticabile, e questo purtroppo rischia di diventare uno standard fastidioso ed ingombrante in un epoca in cui la grande distribuzione è diventata ancora più grande ed inclusiva.